Gruppo, per quel che ne so, semisconosciuto ai più, questi svedesi Lake Of Tears pubblicano nel 2002 il qui presente "The Neonai". Gli svedesi hanno alle spalle diversi lavori, i primi dei quali molto orientati verso un gothic metal dai ritmi talvolta simil-death melodico. Quando acquistai questo disco ne rimasi totalmente spiazzato. Sapevo che il combo era molto influenzato dalla psichedelia floydiana, ma non credevo si potesse arrivare a tanto: il gothic qui è quasi dl tutto sparito, ci siamo spostati su terreni più spiccatamente lisergici (ben delineati anche dalla vagamente "caramellosa" e comunque fiabesca copertina) di un rock molto orecchiabile. Il risultato? Carino, si lascia ben ascoltare per tutta la sua durata, ma non è certo un discone.

L'intro strumentale tipicamente ottantiana e dall'incedere gothic fa ben sperare, e con la seconda traccia "Return Of Ravens" le promesse vengono rispettate. La canzone ha un passo incalzante e solenne, merito della sezione ritmica molto ritmata, delle tastiere d'atmosfera (molto dark wave e quasi "danzerecce"!), delle chitarre potenti e della voce del cantante, non eccelsa ma comunque in grado di creare un certo pathos.

La successiva "The Shadowshires" lascia un po' interdetti. Il ritmo, le parti tastieristiche, persino le chitarre, sembrano una copiatura della traccia precedente! La somiglianza è tale che preferisco considerare queste due canzoni l'una il continuum dell'altra. L'orecchiabilità rimane, il pezzo ti cattura ed è, oggettivamente, molto trascinante, e arrivati alla fine quasi ci si scorda dell'amaro in bocca provato all'inizio.

"Solitude" è invece una ballad piuttosto nebbiosa e lacrimevole. A un'ottima prestazione vocale di Daniel Brennare si affianca una sezione ritmico/melodica sugli scudi, una bella divagazione autunnale sul tema sinora proposto.

Da qui in poi questi due stilemi appena descritti si ripeteranno, alternandosi, per tutto il disco. A tracce più veloci, rockeggianti (non dico gothicheggianti perché di gothic se ne sentirà poco) si alterneranno altre più riflessive, pacate e malinconiche. Il dato frastornante e per me imperdonabile è che la maggioranza di quelle più vivaci sembrano l'una la fotocopia dell'altra. Insomma, ascoltate la batteria: sempre il solito "tunz tunz tunz tunz", nemmeno fosse prodotto dalla più scadente delle drum machine. Il lavoro alle chitarre sale leggermente di qualità nei ritornelli, merito magari di qualche assolo ben riuscito (il finale di "Can Die No More" per esempio), così come la parte legata al basso, che da tradizione ottantiana di tanto in tanto si sbizzarrisce in buone linee ritmiche corpose e piuttosto varie.

Le ballate sono forse quelle un po' più diversificate tra loro, grazie a inserti vocali femminili o a parti un po' più acide, nel quale tutti gli strumenti e la voce del frontman collaborano a alzare leggermente pathos e tensione.

A fine disco ci si sente spiazzati come all'inizio del primo ascolto, indecisi su come giudicarlo. Oggettivamente l'album non è bruttissimo: è orecchiabile, catchy, forse quasi sin troppo allegro per una band gothic. Ma si sa, i grandi gruppi hanno sempre giocato sullo spiazzamento provocato dai loro prodotti, mai uguali l'uno all'altro. Peccato però che i Lake Of Tears non siano, e mi dispiace dirlo, un grande gruppo. O meglio, non dimostrano di esserlo in questo disco, passabile ma un po' sciapino in fin dei conti.

Diciamoci la verità, ciò che hanno fatto prima (e ciò che verrà dopo) è meglio, molto meglio.

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