Lana Del Rey è cresciuta. Lo si avverte con chiarezza nei testi di questo suo ultimo lavoro, che ce la restituiscono più consapevole di sé stessa e della vita, nella sua amarezza e nei suoi lati luminosi. E’ anche probabilmente il primo album in cui mette davvero a nudo il proprio cuore, accantonando l’interpretazione di un personaggio languido e disilluso, di cui non si è mai potuto provare l’autenticità. Emblematici in proposito erano le sue canzoni che trattavano di amori velenosi con gangster, tossici o uomini più anziani di lei. Non ve n’è quasi più traccia in “Lust for Life”, lasciando il campo soltanto a sentimenti sì totalizzanti, come emerge in brani come “Wild Mustang” o “Cherry”, ma mai distruttivi. Amori che fanno male, che rivelano la propria fragilità, ma che lasciano intravedere anche uno spiraglio di luce, come in “Groupie Love” e che non si accompagnano a un rassegnato abbandono e a una torrida solitudine estiva, come nel precedente “Honeymoon”.

Musicalmente questa sensibilità si affida a suoni che tornano dal periodo di “Born to Die”, mescolando arrangiamenti orchestrali, tastiere soffuse e beat urban, qui più marcatamente di stampo trap. Elegante e ipnotica è l’estenuante drum machine che tratteggia il ritornello di “Groupie Love” o l’oscuro ritmo di “Summer Bummer”. Ritmo che si fa più sincopato e scomposto nell’elettronica di “In My Feelings”, canzone sull’impossibilità di scendere a patti con le proprie emozioni, sorretta da un cantato allucinato ed estatico.

Al di là delle incursioni elettroniche, che emergono anche nella title track, un sognante duetto con The Weeknd, altrove si aprono luminosi squarci acustici, come nella intro “Love”. Brano dal sapore hippie, ripreso anche nel video, in cui Lana osserva la spensieratezza della giovinezza, proponendosi come una sorta di fata madrina. Ruolo che ricorre anche in “Coachella – Woodstock in my Mind”, in cui quasi si avverte lo sguardo con il quale la cantante abbraccia dall’alto la folla del festival.

I momenti acustici si fanno più marcati nella seconda parte dell’album, accompagnando anche lievi riflessioni sullo stato attuale dell’America, come in “God Bless America and - All the Beautiful Women in It”, che forma un tutt’uno con la seguente “When the World Was at War We Kept Dancing”, più sognante e rarefatta, ma soprattutto con i successivi duetti. “Beautiful Problems, Beautiful People” è un interessante dialogo al femminile con Stevie Nicks, avvolto da innocui arrangiamenti al pianoforte. Sorprende maggiormente “Tomorrow never Came”, scritta insieme a Sean Ono Lennon. Più che una canzone, una sorta di malinconica seduta spiritica in cui il fantasma di John Lennon riemerge negli accenni velati alle melodie beatlesiane. Malinconia che si va ad arenare nella triste e rassegnata “Heroin”, che riprende certe sonorità vagamente chill-out già sfiorate in “Honeymoon” e altrove in questo ultimo lavoro.

Il morale si risolleva vagamente con l’amara “Change”, che tratta l’ineluttabilità dei cambiamenti e la loro accettazione, e la speranzosa, ma non troppo, “Get Free”, incalzata da un ritmo sorprendentemente spedito per la Del Rey e da vaghe reminiscenze anni 80. Interessante la metafora del rincorrere l’illusione dell’arcobaleno, consapevoli che in fondo si stringerà fra le mani soltanto un pugno di cenere, emblematica ancora una volta della maturità acquisita dalla Del Rey, che finora si era lasciata cullare da immagini morbose, artificiose e venate da un certo infantilismo interiore.

Gli ultimi momenti dell’album, infine, lasciano intravedere un soleggiato squarcio paesaggistico, fra onde e stridii di gabbiani. Quasi un contrappunto a “Swan Song”, il brano conclusivo di “Honeymoon”, che però lasciava intuire un desiderio di fuga dal mondo, a conclusione di un album segnato da un’atmosfera di solitudine e reclusione alla Sunset Boulevard. Qui gli occhi di Lana, invece guardano all’avvenire, con le sue sfide e le sue ricompense.

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