Quand'ero piccolo smaniavo per il cartone animato "Superauto Mac 5", una delle più vecchie serie giapponesi trasmesse in Italia e frutto di quel genio - relativamente - misconosciuto che fu il compianto Yoshida Tatsuo; deus ex machina, qui è proprio il caso di dirlo, della piccola casa di produzione Tatsnunoko: per dire, quella di Judo Boy, Kyashan, Hurricane Polymar, i Gatchman, Tekkaman, Yattaman e via discorrendo. Morì giovane, più o meno quando nascevamo io e tutta la generazione di italici che mitizzò la maggior parte dei suoi personaggi, serbandone la memoria anche un trentennio dopo la sua ascesa nell'Empireo dei cartoonist.
Un po' tutti gli eroi di Yoshida presentano tratti comuni: enfatizzano l'idea del tradizionale eroe solitario, tanto caro alla tradizione giapponese (e poi a Kurosawa per finire al Sergio Leone degli western spaghetti con Clint), così preso dalla realizzazione della sua missione e dall'affermazione dei propri valori etici da esser pronto a sacrificare financo la vita (Kyashan, Tekkaman, in parte i Gatchman). Talvolta la tradizione viene rivisitata in chiave ironica, stemperando lo spirito di sacrificio dell'eroe negli accidenti della vita stessa, e nel fatto che essa non sia, al dunque, cosa talmente seria da meritare l'autodistruzione di chi la vuole a tutti i costi prendere sul serio, alla faccia di Mishima Yukio (magistrali, in tal senso, Hurricane Polymar e Yattaman).
Il film dei fratelli Wachowsky, già autori della trilogia di Matrix (il quarto episodio sarà dedicato alla vita di Materazzi) omaggia Yoshida con questo "Speed Racer" (visto ieri sera in un cinema quasi deserto), direttamente ispirato alla serie "Superauto Mac 5", dove si narra delle gesta del pilota Speed e della sua famiglia (papà costruttore artigianale di veicoli, mamma casalinga, fratellino minore, scimpanzé addomesticato, fidanzata, meccanico), alle prese con lo spietato e corrotto mondo delle corse, e con un misterioso pilota (Racer X) che, dalla parte dei buoni, tanto ricorda il fratello morto del protagonista.
A mio parere, l'omaggio è riuscito a metà: si tratta di un film estremamente fantasioso sotto il profilo tecnico, grazie al massiccio uso della computer graphic, addirittura turbinoso e compulsivo nella rappresentazione delle gare (sono uscito dal cinema con i capogiri), e davvero interessante per quanto riguarda l'uso, spinto all'estremo, dei colori e delle loro possibili combinazioni: l'effetto è quello di un Willy Wonka alla Burton sotto allucinogeni, o di un pomeriggio passato a giocare a Super Mario Cart o qualcosa di simile che tanto va di moda fra i teenager (ai quali il film strizza decisamente l'occhio, non potendo contare solo sui nostalgici di Yoshida).
Sfruttando l'ironia insita su certi cartoon della Tatsnuoko (a dire il vero, non della serie originale da cui è tratto il film) i Wachowsky virano la storia sul surreale anche per quanto riguarda le caratterizzazioni dei personaggi (soprattutto i cattivi davvero bozzettistici), condendo il tutto con abbondanti dosi di comicità e di smitizzazione della violenza (autoironici rimandi a Matrix ed ai combattimenti visti in quei film si sprecano). Splendidi i cameo e gli inserti del fratellino di Speed e dello scimpanzé, al quale sono peraltro dedicati i titoli di coda del film. I buoni sono forse dipinti in maniera scontata ed uniforme, per cui lo stesso protagonista appare figura piuttosto sbiadita e unidimensionale, come pure i genitori e la fidanzata (buone, peraltro, le prove degli attori: Emile Hirsch, John Goodman, Susan Sarandon e Christina Ricci fra gli altri).
Il film mostra tuttavia delle pecche evidenti nello sviluppo della trama (prima parte decisamente noiosa, seconda rutilante ma con un senso di deja vù), il massiccio uso della computer graphic rischia di togliere anche la minima - necessaria - autenticità alla storia, stancando pure gli occhi dello spettatore. Il prodotto sembra, pertanto, una sorta di esercizio di stile, sfocando forse l'intima malinconia che traspariva da tutti i cartoon di Yoshida - pure quelli comici - pari a quella che resta negli attuali ultratrentenni quando, alla ricerca della propria infanzia perduta, credono di ritrovarla in un cinema semi vuoto.
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