Io e il film

Vidi per la prima volta Dancer in the dark nel 2001. Uscii dalla mia saletta cinematografica di fiducia commosso. Più di vent’anni più tardi, alla quinta o sesta replica, la commozione è più che raddoppiata (ahi, l’età e l’amore rendono il cuore debole).

Posso dire con certezza che Dancer in the dark non invecchierà mai perché in esso viene rappresentato magistralmente un sentimento ancestrale, universale ed eterno qual è l’amore materno.

La trama e le tematiche

Il film racconta la storia di Selma Ježková, madre di Gene, che si è fissata come missione per la vita, quella di raccogliere in segreto dei soldi per un’operazione che eviterebbe al figlio di diventare cieco a causa di una tara genetica. Per gli occhi di Selma, infatti, è ormai troppo tardi, per quelli di Gene, invece, no.

Il sacrificio di Selma per lui è il fulcro, il nucleo della storia. E per portare a compimento la sua missione, lei, mette da parte sé stessa: l’amore romantico, i quotidiani gesti di affetto, le gioie immediate “in questo momento non le interessano”.

Una vera forza della natura, nessun ostacolo sembrerebbe poterla fermare. Eppure, quando è ormai a un passo dall’obiettivo e i suoi occhi non lasciano più passare la luce, si lascia andare a quelle confidenze dimenticate dentro la corazza che si era costruita…

… e quella famiglia che l’aveva accolta, quel sobborgo industriale che era diventato il suo, quella nazione che le aveva dato la speranza, si trasformano e mostrano la loro altra faccia. Dove albergavano accoglienza e gentilezza ora prevalgono ostilità e crudeltà, astio e diffidenza: la sua colpa principale è quella di essere diversa dal gregge, di portare il segno delle sue lontane origini.

Al di là della storia universale, è quindi questa società perbenista, puritana, integralista a essere l’obiettivo degli strali del regista danese; lo è qui, come lo era stata nel passato in Breaking the waves e come lo sarà nel futuro in Dogville. Una società bifronte, composta “da brave e oneste persone che amano la propria cittadina”, ma che, per difenderla, son pronte a trasformarsi da agnelli in lupi.

E insieme a loro si trasforma in un inferno il sogno americano di Selma.

L’occhio di Lars e la realtà oggettiva

Della drammatica storia di Selma l’occhio di Von Trier non censura nulla; con la camera in spalla entra nei suoi luoghi, la sala teatrale, la fabbrica, la roulotte e la cella; ci svela i suoi comportamenti, le sue preoccupazioni e le sue speranze, andare in fumo.

Tutto nero, insomma.

Eppure, qualcuno potrebbe dire: - E la speranza? Ci vuole un po’ di speranza.

E invece no, per Von Trier non c'è speranza di poter trasformare la maggioranza viaggiando su dei binari propri, verso altre direzioni, poiché essa farà di tutto per sopravvivere e preservare sé stessa, come l’abitudine. Per evitare che l'eccezione possa fiorire.

Egli non vede nessuna speranza per le sue protagoniste; per chi, come Selma, è minoranza, non vede possibilità di cercare il proprio spazio nella società muovendosi con gentilezza, senza scavalcare gli altri o senza camminare sulle loro spalle.

La realtà è nera.

Il musical e la speranza

Tuttavia, se nella realtà non c’è spazio per essa, nella fantasia c'è ancora uno spiraglio di luce. In essa la musica e il ballo restituiscono ciò che la realtà nega. Innanzitutto, restituiscono a Selma le immagini, ma le restituiscono anche un mondo ideale in cui giudici e imputati, operai e caposquadra, secondini e carcerati, ballano tutti insieme.

E così di fronte al tragico epilogo reale, Selma può rivendicare la difesa del suo fantastico regnno attraverso le parole che chiudono il film:

They say it's the last Song

They don't know us, you see

It's only the last song

If we let It be

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