"C'è uno scozzese sbronzo al telefono che ti cerca". Sono le parole che si sentì dire dal padre, alle tre del mattino, l'allora diciannovenne chitarrista Viv Campbell. La voce dall'altra parte della cornetta è quella di Jimmy Bain, bassplayer che ha appena chiuso la sua militanza nei Wild Horses, reclutato a sua volta quasi per caso tra un pub e l'altro di Londra, giusto per far parte del nuovo progetto solista dell'ormai ex singer di Rainbow e Black Sabbath – Ronnie Dio.
Come si dice in questi casi oltre oceano: "..and the rest is history".
Bain, Campbell ad Appice hanno composto e pubblicato un disco hard rock anche nel 2016, all'inizio costringendo i più attenti e smaliziati a insinuare si sia trattato di una operazione di sciacallaggio. Ciò detto, sia in ragione della prematura scomparsa del frontman che questa formazione la mise in piedi nell'ormai lontano 1982, sia perchè, prima della suddetta morte, pare che mai Campbell abbia risposto alle sirene di una reunion col folletto Ronnie.
Ma non ci saranno altri capitoli, visto che lo stesso Bain ha seguito il (fu) leader del progetto "Dio" al creatore - e lo ha fatto proprio subito dopo la pubblicazione di questo lavoro.
"Heavy Crown" rappresenta il testamento di questa storia: un saggio hard 'n' heavy, il sound dell'hard rock durante la N.W.O.B.H.M. Il redivivo Campbell suona quindi per l'ultima volta col suo rifferama heavy doom, infine a suggellare con questo tassello la discografia bruscamente interrotta a partire da "Dream Evil" dei Dio del 1987 – nel quale già il chitarrista irlandese non figurava più, per lasciare spazio al maggiore songwriting del Craig Goldie di turno.
Il trio superstite della formazione di "The Last In Line" (1984) ha composto evocando quel suo modo di scrivere rock. Come detto, nella struttura dei brani e nei suoni delle chitarre, in "Curse The Day" e "The Sickness", Bain e Campbell fanno riapparire il doom preso a prestito ai Sabbath trent'anni prima.
Altra nota di merito: per lo meno in brani come "Starmaker" e "Burn This House Down" non si ha l'impressione di ascoltare un mero tribute singer. Così anche in "Devil In Me", Freeman produce vocalizzi a modo suo, senza sforzarsi di imitare troppo il suo illustre predecessore. Circostanza che, se non lo fa apprezzare per l'originalità dell'impostazione (laccata come una capigliatura anni ottanta) gli conferisce almeno una dignità di artista "causa sui".
Nel basso pulsante di Bain - catapultato direttamente da quello squarcio degli Eightees, ma su un solco registrato con le consolle attuali – sono nascosti tutti i racconti di un sottovalutato turnista e compositore hard rock di quegli anni, spesso fuori, in tour per il mondo. Coca e coma etilici compresi.
Nelle lyrics della citata "Starmaker" e "Orange Glow", ispirate alle mille letture del folletto, non si può certo trovare lo stesso background e spessore dualistico dell'originale. Eppure una lancia va spezzata, quando il ritornello si chiude e per l'ennesima volta entra la consueta, bastarda, progressione del solo. Come riascoltare una outtake da "Holy Diver" (1983).
Il disco si divide tra esempi di rock spacca ossa, a tratti anche ispirati, come "Martyr", "Already Dead", "I Am Revolution" e consueti gingle monolitici. La titletrack e "Blame It On Me" sono a cavallo tra il patinato della seconda metà anni ottanta e l'heavy asciutto a tre esecutori - quello delle primissime mutazioni da rock a metal chitarra/basso/batteria.
Non erano i Led Zeppelin: rispetto al passato avrebbero composto tutt'altro o nulla più. Quindi si tratta del classico prodotto di nicchia, un savio tour a ritroso per soli appassionati del genere ed il voto è zero se si prescinde da questa premessa.
Come comperare delle reminiscenze, di belle e di splendide, una volta per tutte.
Carico i commenti... con calma