Inserito nel contesto Sonic Youth, come risaputo, Lee Ranaldo è capace di stupire. Ma al di fuori di esso... credo sia addirittura in grado di sconvolgere.
L'album in questione (se album è il termine appropriato), comprende quella impalpabile fascia, quel limbo, in cui sono relegati tutti quei lavori che celebrano generi come la progressive, l'ambient e la new wave, pur essendo da questi lontani anni e anni luce.

Il primo esempio che mi viene in mente ascoltando From Here To Infinity è Metal Machine Music di Lou Reed, paragone immediatamente smentito dal modo con cui i suoni cercano di prendere forma una volta avviato il lettore cd: un incubo espressionista.
Si comincia. In "Time Stands Still", le sonorità risultano essere da subito estremamente disarticolate, viziate da uno strato di lieve esoterismo che esalta la freddezza dell'animo sino a mozzare il fiato, e subito si intuiscono le finalità a cui Lee vuole arrivare: la progressiva astrazione della mente. E devo confidare che gli riesce davvero bene.
Proseguendo con le successive tracce il dubbio muta in limpida certezza, anche se meno limpide appaiono (nel vero senso della parola!) "Destruction Site" e "Ouroboron", nelle quali sembra di cogliere la visione della Metropoli per quello che è realmente agli occhi dello spirito, un macero di anime erranti al servizio di quel gelo che si annida ogni giorno nei vicoli più bui della mente. Antri di smarrimento. Ed ora il disegno si complica. Ripetizione. Atmosfera. Condensa.
Scopro di non essere realmente seduto, di fronte ad un monitor. Lo vedo, sono dentro. Il cielo si abbassa irreversibilmente, il suo riverbero mi sciocca e sevizia con "Slo Drone", un riecheggio che pare interminabile quando all'improvviso "New Groove Loop" spezza lo stato d'assortimento in cui ero piombato, per scuotermi concentricamente sino all'esaurimento della razionalità.
Il cammino prosegue all'interno di "Florida Flowers" un temporaneo cambio di muta, estraneo al filo del percorso, dal quale si esce ben presto per sbucare in "Hard Left". "Fuzz/locust" riporta all'ascolto quel tema sacrale che si era manifestato all'inizio, un vero giro di boa. Ma la pelle si accappona, lo giuro, con "To Mary": una scarica di kharma passa da un timpano all'altro proiettando lo sguardo verso la via al di fuori dell'antro. Una voce, un sentore che chiama suadente e corrosivo, scemando temporaneamente per poi morire in un vicolo cieco.
Invischiati in quella pozzanghera di catrame, che a mio avviso costituisce "Lathe Speaks", manca il fiato ed è come morire reincarnandosi subito in "The Resolution", brano che estremizza i più celebri rumori di "Confusion Is Sex". Camminando lungo il viale di alberi spogli ci si imbatte nell'ultima desolata spiaggia, oltre la quale non si coglie l'orizzonte: "King's Ogg", brano il cui compito è quello di traghettare l'ascolto verso la sponda del mondo reale, previo attraversamento di un oceano dalle profondità incalcolabili. Naufragando da quest'ultimo pezzo "polare", si ritorna in sé.
Al risveglio, ci si sente ancora addosso l'odore di un mondo a cui non si appartiene apparentemente, ma che in reltà è il medesimo che calpestiamo ogni giorno, senza renderci conto che ci osserva, che vive e si nutre delle nostre sensazioni, delle nostre paure.

Non ci sono ulteriori conclusioni, o superflui commenti da fare a riguardo.
Se ascoltati attentamente, questi suoni possono tramutarsi in immagini. Vere proiezioni e caricature della nostra mente rese esiziali dal freddo che solo le chitarre spiritate di Ranaldo possono offrire.
Un album geniale, non innovativo (qualcosina degli Einstürzende Neubauten si coglie, microscopicamente), ma senza dubbio inimitabile per la facilità con la quale ogni brano si lega all'altro in modo asfissiante. Vivamente sconsigliato se ascoltato in modo frettoloso, va sciolto in bocca, lentamente.

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