Ebbene sì. Sono felice.

Una pulsione positiva mi ha attraversato il corpo come un fulmine a ciel sereno.

Entrare in un supermercato alla ricerca di mangime per le tartarughe e ciondolare tra i dischi in uscita, deglutendo con orrore di fronte alla spazzatura che dilaga come una furia sul 90% delle opere esposte. E poi un raggio di luce che si libra nel cielo, lì ad illuminarti un disco nascosto e timido tra un violento impatto dissenterico di Giusy Ferreri e uno dei Dari, quasi a significare che nessuno voglia più ascoltare musica pop di classe. Il disco in questione è "Twist The Truth" di Lene Marlin, una dolce fanciulletta norvegese che fa un album ogni morte di Papa (quattro gli anni di distanza da "Lost In A Moment").

Lene Marlin è, insieme a Jewel, la mia cantautrice disimpegnata preferita: entrambe splendide, nordiche e con una grande capacità di scrivere canzoni ad impatto, ma riuscendo anche ad essere sensuali e differenti, sperimentali perché no.

Fatto sta che lei ora è ancora viva, non è caduta in un ghiacciaio o si è persa rincorrendo gli orsi polari, lei è lì, nella sua casetta di legno sperduta nel bosto a canticchiare davanti al camino con la sua chitarra acustica.

E lancia il suo ultimo lavoro con un gioiello come "Here We Are", ballata intima e timida, che ricalca le sensazioni di un "Another Day" del tempo che fu, che consumai nel lettore cd come cioccolato tra i miei denti. "Here We Are" è una canzone d'amore e ritorno, così sincera e delicata, ma penetrante e paradossalmente violenta. Un'ode, una preghiera sottovoce, sorretta dal volteggiar di violini malinconici e regnanti, il condimento potente di un pezzo di cuore. Una ballata di preziose emozioni e tesori, che basta per identificare il percorso della cantante norvegese come continuo mutamento, senza il rischio di stare a scrivere la solita canzone per tutta la vita.

Now you wanna hold my hand
You chose to take it
The truth is that I never really thought we'd make it
Here we are
No chance I'm leaving
Ideas of love and life it sure can be deceiving
Here we are now

Un po' come "Another Day" fu un diario di depressione e delusione e "Lost In A Moment" il ritrovamento della felicità, "Twist The Truth" è il punto di maturazione, dove Lene sa sperimentare e cambiare volto in ogni pezzo, riscoprendo il suo geniale estro di originalità.

Ecco che quindi, una debole "Everything's Good" posta pericolosamente in apertura, viene ricompensata da una bellissima "Have I Ever Told You?", una canzone che non ti aspetteresti mai nella tracklist di un album di Lene Marlin: un pezzo di interventi jazzisti, incursioni elettronico-glitch à la Bjork e un canto sommesso che ricorda quello di Tori Amos. Un po' blues, un po' jazz, un po' pop. Spiazza, un po' come il grido finale di un'intenso dramma come "Come Home".

"You Could Have" è invece un country poetico e malinconico, degno della Lene più triste e aggraziata, con inedito finale più velocizzato e caratterizzato dall'entrata in gioco delle chitarre, avvolgenti e feroci, il pianoforte che tenta di surclassare le colleghe con virtuosismi improvvisi, voluti da un cielo stellato violentato da una ragazzina curiosa.

"I'll Follow" è sicuramente una struggente ballata in puro stile Marlin, con tanto di fiati che salgono e scendolo, accarezzando l'ugola di chi si fa trascinare da sentimenti intensi e dolciastri. Una ninna nanna che scalda e rabbrividisce allo stesso tipo, dimostrando il talento ambivalente della musica di questa ninfetta relegata dai più con una "Sitting Down Here" di Vivin Ciana memoria.

Non c'è rivoluzione nella sua musica, non c'è il pensiero di fare il capolavoro, né di accontentare tutti. Nella musica di Lene c'è semplicità, pura e cruda. Che lo vogliate o no, questa potrà sconvolgervi o no. Perché anche negli artifici della sua musica c'è quella spontaneità difficile da trovare nella musica pop contemporanea.

Ci sono ballate danzanti, suggestive e preziose, costruite con rosei petali fatati. Dieci pezzi da prendere e portare via, sotto un nuovo crepuscolo. Da ascoltare con speranza, stuprati da una inedita voglia di positività, sotto il grigiastro cielo di una Norvegia nevosa.

Ma l'incantesimo avviene con la chiusura del sigillo: la superba "You Will Cry No More", a metà tra il jazz-blues essenziale e il gospel, con voci lontane e spettrali da accompagnare una voce folky e una batteria da ricordare i passaggi ritmici dei Sigur Ròs di Tàkk. Un gioiello di tre minuti chiuso da un flauto danzerino, quasi come se questa fosse una favola estiva in grado di far nevicare a giugno.

Tàkk.

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