Non sarebbe certo questo disco la mia prima scelta a chi mi chiedesse un consiglio su Leonard Cohen: a cinquant’anni di distanza faccio ancora fatica ad apprezzarlo davvero e se dovessi fare una classifica di merito lo metterei tra quelli non-essenziali.

Avevo vent’anni quando lo acquistai alla cieca – tanto avevo amato i suoi primi album, i tre della serie “Songs …” – ma già allora al primo ascolto mi sembrò un disco “faticoso”, come se l’autore avesse lavorato tanto per dimostrare qualcosa che proprio bene non gli era venuto, con dei riferimenti che non riuscivo a cogliere e perfino un titolo che non capivo.

Nella playlist di 11 pezzi di medio livello non c’era traccia di una vera hit, voglio dire uno di quei pezzi apparentemente semplici («Bird On A Wire» tanto per citare) oppure con un ritornello che si facesse notare e ti restasse in testa senza essere banale (tipo quello di «So Long, Marianne» invece di quello qui di «Lover, Lover, Lover»). Giustifico la mia delusione di allora dicendomi che troppo gracile era il mio inglese per riuscire ad avventurarmi - senza l’aiuto di un testo che l’album non mi forniva - nella comprensione di pezzi come «Field Commander Cohen» oppure «Who By Fire» e tutto l’album mi sembrava inconsistente. Oggi le cose si sono assestate e non sono più così severo: non mi sorprendono più la (relativa) robustezza dell’orchestrazione (che allora mi sembrò ridondante) e neppure il rinforzo di background vocals (toccò anche a Bob Dylan). Soprattutto, oggi si trovano facilmente in rete i testi di tutte le canzoni (il sito ufficiale italiano fornisce anche ottime traduzioni) così che diventa più agevole per tutti l’accesso ai pezzi più significativi, quelli già citati e almeno altri due: l’intrigante «Chelsea Hotel #2», dedicato a Janis Joplin, e poi «There Is a War», per me la canzone più bella, con la sua spietata metafora dell’amore come un campo di battaglia, “una guerra tra uomo e donna”.

Per me c’è poco altro da aggiungere, oltre a ricordare la particolarità della sua voce: anche qui a volte dolce e ammaliante, più spesso graffiante ed incisiva, che però non riesce mai a trovare mai quell’enfasi quasi profetica che avevo amato nei suoi primi album, quelli davvero “consigliati”. E poi la copertina, certo non brutta, ma che più che per una propria intrinseca significatività, si distingue in negativo per essere una delle pochissime dove non compare una fotografia del caro Leonard.

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