L’essere umano ha un grande interesse a vivere sicuro: ancestrale necessità da cui si ingenera «il potere» quale strumento per produrre sicurezza, il quale viene esercitato mediante norme irrobustite dalla forza delle pene.

Tuttavia, la sicurezza è una condizione vaga e mutevole, la quale viene riempita di contenuto proprio da quel «potere» che fissa le regole del vivere civile. Operando su una base così incerta, il rischio è quello di schiacciare le libertà individuali, almeno per coloro che ostinatamente credono, pure nell’orientativo quadro legale, di potersi autodeterminare. Ecco, dunque, che si materializza il problema dei limiti alla vorace idea punitiva.

Nel frattempo, dalle rive del fiume Meno giunge il seguente monito: «il diritto penale della sicurezza [...] è uno strumento di potere autoritario, pronto alla violenza. Il diritto penale della sicurezza non ha più perduto questo carattere. Pertanto, è indifferente se esso operi a servizio di una monarchia, di una dittatura o di una democrazia» (W. Naucke, La robusta tradizione del diritto penale della sicurezza: illustrazione con intento critico, in M. Donini / M. Pavarini (a cura di), Sicurezza e diritto penale, Bonomia University Press, Bologna, p. 80).

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L’oggetto narrativo non identificato di cui si discute può essere inserito nella sopraindicata cornice; Leonardo Sciascia descrive le orribili sembianze di un potere illimitato, che necessita, oggi come ieri, di essere frenato.

Facciamo, però, un passo indietro.

Morte dell’inquisitore narra le vicende del racalmutese fra’ Diego La Matina, vissuto in Sicilia nel XVII secolo ed appartenente alla schiera degli uomini di tenace concetto, «testardi, inflessibili, capaci di sopportare enorme quantità di sofferenza e di sacrificio» (p. 119). Pare che quest’uomo si rivoltò contro «l’ingiustizia sociale, contro l’iniquità, contro l’usurpazione dei beni e dei diritti», arrivando «nel momento in cui vedeva irrimediabile e senza speranza la propria sconfitta, e identificando il proprio destino con il destino dell’uomo [...], ad accusare Dio» (p. 95); per conseguenza, si scontrava con la feroce istituzione dell’Inquisizione, che intendeva tutelare la sicurezza degli onesti cittadini dal pericolo dell’eresia, esercitando a questo fine un terroristico controllo sociale.

«A Racalmuto c’erano, nel 1575, otto familiari e un commissario del Sant’Uffizio; e due anni dopo dieci familiari, un commissario e un mastro notaro: su una popolazione di circa cinquemila [...]. Vale a dire che il solo Sant’Ufficio aveva una forza quale oggi, con una popolazione doppia, non tengono i carabinieri. Se poi aggiungiamo gli sbirri della corte laicale e quelli della corte vicariale, e le spie, ad immaginare la vita di questo nostro paese alla fine del secolo XVI lo sgomento ci prende» (p. 32).

«Era facile [...] formulare accuse di luteranesimo, e a carico di chiunque» (p. 36).

Nello specifico, l’Inquisizione operò in Sicilia dal 1487 al 1782.

Agiva generalmente contro «cinque sorti di persone: gli eretici e i sospetti di eresia, i fautori loro, i maghi e le fattucchiere, i bestemmiatori, gli oppositori di esso Sant’Ufficio e dei ufficiali; e straordinariamente (ma con tragica frequenza) contro giudei, maomettani e infedeli d’altre sette» (p. 51).

La procedura non forniva alcuna garanzia all’accusato – «si ha di avvertire che nelle sentenze non si cavino di motivi e raggioni che dona il reo» (p. 79) – e la ricerca della verità non disdegnava le «molestie del remo, i lunghi digiuni, le penitenze salutari, le dolorose torture, i ceppi, le manette, le catene, sofficienti ad ammollire il ferro» (p. 65).

Tale monstrum giuridico arse vive almeno 234 persone, mentre non si conosce il numero dei condannati a pene minori.

Ecco, Morte dell’inquisitore narra dell’inflessibile ferocia istituzionale che si scatena contro l’uomo di tenace concetto. Pagine che non appartengono ad un lontano passato, ma di estrema attualità, giacché «appena si dà tocco all’Inquisizione molti galantuomini si sentono chiamare per nome, cognome e numero di tessera del partito cui sono iscritti. E non parlo, evidentemente, soltanto di galantuomini cattolici» (p. 10). Si ripete, il potere necessita di limiti, che sembrano essere accettati con sempre maggiore insofferenza da una politica che vuole le mani libere e, soprattutto, da un’opinione pubblica che vuole essere magicamente salvata dall’alto, interrogando le istituzioni per ogni risposta, nello sventolio dell’omnicomprensiva bandiera della sicurezza. Ora, Sciascia con questa mirabile storia evidenzia quanto sia importante – per coloro che hanno a cuore la libertà – dubitare del «potere», che è stato e può tornare ad essere Inquisizione, non dovendo scambiare i suoi argini per vuote e manipolabili formule di un’epoca passata.

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