Un nome una garanzia insindacabile di qualità e soprattutto di genialità artistica. Ormai quando sento il nome Leprous so già che sarà un disco clamoroso, imprevedibile e dalla creatività disarmante.

Già quando vedi la copertina rimani completamente spiazzato, già lì vedi che sono dei geni assurdi: su uno sfondo nero, in posizione diagonale quasi a dividere in due la schermata, ti trovi uno strano oggetto a metà fra un calice, una scopa stilizzata e un corno da caccia. È il trionfo dell’ermetismo, del misterioso ma anche del caotico, nome della band e titolo dell’album vengono infatti scomposti in sillabe disordinate e sparsi su quell’intrigante tappeto nero. Non vedevo nulla di così ermetico dai tempi di “Paramount” dei Sieges Even, con quella specie di blocco di ghiaccio metallico fluttuante nel mare. Non si giudica assolutamente il disco (sì, vale anche per i dischi, non sono per i libri) dalla copertina, ma già la visione della stessa ci dà un indizio non indifferente: sarà un disco imprevedibile e pieno di mistero.

La caratteristica fondamentale dell’album, quella che emerge subito, è sostanzialmente una: l’indurimento delle sonorità, o meglio il ritorno di riff più pesanti nel tessuto sonoro della band, ritroviamo parte di quei riff taglienti di cui la band si era disfatta a partire da “Malina”. Tuttavia non si tratta assolutamente di un ritorno al peculiare prog-metal dei primi 4 album, non saranno certamente una manciata di singhiozzi metallici distribuiti qua e là a far gridare al metallo pesante (sapete che sono molto prudente nell'attribuzione del genere); si tratta appunto di schegge metalliche, tangibili ma che non vogliono in alcun modo imporsi o dettar legge. A dire il vero le melodie rimangono nel complesso anche piuttosto orecchiabili ed accattivanti, anche se non siamo certo prossimi al simil-pop di "Pitfalls". Ad esplodere con moderazione sono in ogni caso solo i ritornelli, che arrivano con modesto impeto dopo strofe ben più delicate in cui il vocalist Einar Solberg continua ad adottare uno stile più o meno sussurrato; delicatezza che sembra essere un retaggio del precedente “Aphelion” ma che qui si manifesta in misura meno marcata. L’unico ritornello che il metal lo rispolvera per bene è quello di “Like a Sunken Ship”, lì sì che possiamo fare un air guitar mimando bene i power chord e viene fuori un buon headbanging.

Rimane comunque indubbio che “Melodies of Atonement” è una solida conferma dell’eclettismo e dell’imprevedibilità delle soluzioni che rendono la band fortemente adorabile. Ogni brano riserva una sorpresa e differisce da ciascun altro. Impossibile rimanere indifferenti di fronte ai saltelli di synth e basso in “Silently Walking Alone”, ai pianti frenetici di chitarre in “Atonement”, ai bagliori delicati di “My Specter”, ai sibili elettronici di “I Hear the Sirens” o all’elettronica più malata di “Self-Satisfied Lullaby”, come anche al funk smorzato di “Limbo”.

In tanti avranno sicuramente cercato il pelo nell’uovo, ad esempio ho udito alcune lamentele sulla voce di Einar divenuta ormai troppo lagnosa e piagnucolante, o sulla tendenza alla ripetizione forzata di alcuni temi, ma personalmente non le condivido e non mi riguardano, per me i Leprous continuano ad essere una garanzia e anche “Melodies of Atonement” molto probabilmente si guadagnerà un posto in zona Champions League nella classifica finale di fine anno.

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