Leslie West è un grande, un autentico pazzoide con due occhi sbarrati da fottuto maniaco. Quando a una Convention gli presentai (il mio chitarrista) Wurzel… scomparvero nella toilette degli uomini, tutti e due nello stesso box, il che non era cosa facile da fare, considerata la stazza di Leslie. A West cadde un po’ di cocaina su una scarpa e disse: Non voglio che tu pensi male di me, Wurzel, ma temo che dovrai abbassarti su di me, ora! Così Wurzel dovette scendere a sniffare la coca direttamente dal suo stivale!

Leslie West non aveva pazienza nei confronti di quella Convention (di discografici). Non posso rimanere qui, Lemmy, mi disse, Questi son tutti dei dannati contadini!”

“Lo so!, dissi io. Sto cercando di andarmene anch’io!”

“Beh, io me ne vado, disse lui. Mi rattrista, Lemmy, lasciarti solo, ma devo andare! Si avviò verso la sua macchina e se ne andò. Non potevo biasimarlo. Nessuno aveva mai fatto un cazzo per lui, nessuna delle sue etichette discografiche. Ecco un tizio che dovrebbe essere il numero uno e invece è stato ignorato per anni dalla macchina dei successi…”.

Queste parole lasciateci dal perspicace Lemmy dei Motorhead sul suo libro “White Line Fever” sono il testamento migliore che conosca per questo grand’uomo, di nome e di fatto, del rock blues stelle e strisce.

Chitarristicamente, aveva il dono di saper “cantare”, cioè di mettere insieme assoli e contrappunti che tracciavano melodie che avevano una partenza, uno svolgimento e un arrivo. Non erano una macedonia di licks uno dietro l’altro sulla pentatonica blues. E poi il tocco: usava evidentemente plettri molto duri e piccoli, così le ditone che li stringevano entravano anch’esse in gioco, dando un attacco pazzesco alle sue pennate e riempiendo il suono di armonici aggressivi e fecondi. Votato ad un timbro distortissimo e facile all’innesco di effetti Larsen e rumori indesiderati, riusciva a controllare il tutto con la massima precisione e pulizia.

La voce era poi un marchio di fabbrica: sanguigna, arrabbiata e roca quanto e più di altri suoi colleghi come Johnny Winter, George Thorogood, Steve Marriott, Tom Keifer, Brian Johnson. Un cantato imperfetto ma altamente “nel ruolo”, un autentico canto rock’n’roll, senza compromessi.

Per scrivere queste cose mi sto appoggiando ad uno dei suoi tanti dischi solisti, uscito nel 2011 come penultimo di carriera, quattro anni prima della morte. E’ l’usuale disco che ci si aspetta da West se lo si conosce, un ottimo lavoro coi suoi tipici rock tellurici inframezzati da qualche dolce schitarrata sullo strumento acustico, da sempre portato come alternativa al grande, poderoso, indimenticabile suo attacco elettrico.

Accorrono a dargli una mano tanti suoi colleghi ed estimatori, West era amato e ammirato da tutti gli addetti ai lavori sulle sei corde. Vi sono cameo di Joe Bonamassa, Steve Lukather, Billy Gibbons, Slash, Zakk Wylde, Del Bronham degli Stray. Fra le canzoni in scaletta vi è una cover dei Beatles (lato Lennon naturalmente: “I Feel Fine”), un’altra dell’antico maestro e pioniere blues Willie Dixon.

Una curiosità: alla chitarra basso evoluisce il prode Fabrizio Grossi, musicista milanese scappato per tempo negli Stati Uniti e che ce l’ha fatta, entrando nel giro “buono” del rock blues made in U.S.A. Portato al cospetto di West dal comune amico Gibbons, presumo.

Elenco e tracce

01   One More Drink For The Road (00:00)

02   My Gravity (00:00)

03   The Party's Over (00:00)

04   I Don't Know (The Beetlejuice Song) (00:00)

05   Mud Flap Momma (00:00)

06   To The Moon (00:00)

07   Standing On Higher Ground (00:00)

08   Third Degree (00:00)

09   Legend (00:00)

10   Nothing's Changed (00:00)

11   I Feel Fine (00:00)

12   Love You Forever (00:00)

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