La scena Black metal, così come quella Death, è oramai satura: sciami di gruppi, più o meno validi, si accalcano intorno al medesimo obbiettivo, ovvero creare il prodotto musicale più estremo e intransigente. Col passare del tempo, però, è emersa sempre più chiara la necessità di aprire nuove strade, di provare qualcosa di nuovo per evolvere sonorità che si ossificano su loro stesse: in questo contesto, c’è chi tenta le contaminazioni con altri generi e chi invece approfondisce lo stesso in altre direzioni.
Indubbiamente la one man band Leviathan (da non confondere con gli omonimi turchi e svedesi), “mostro” del californiano Wrest, appartiene a questa categoria e sviluppa il lato più autenticamente lugubre del Black. Simili gruppi hanno raggiunto un tale numero da guadagnarsi una definizione tutta loro, quella di “depressive black”, corrente iniziata dal famigerato Varg Vikernes, cioè Burzum, e continuata da molti altri, tra i quali cito il progetto tedesco Nargaroth, il nostrano Forgotten Tomb, il duo tedesco dei Forgotten Woods e l’australiano Abyssic Hate (gli ultimi due, gruppi dei quali fornirò entro breve una recensione).
Leviathan si avvicina forse maggiormente a Nargaroth e a Burzum, a loro volta più vicini al raw black, eliminando però la componente per così dire “pagana” dei quali i sopraccitati sono portabandiera, non solo a livello tematico ma anche sonoro. Indiscutibilmente il prodotto (edito dalla Moribund Records nel 2003) che ne scaturisce è molto interessante anche se (come è ovvio) privo di virtuosismi tecnici e di sperimentazioni ardite: il nostro, bisogna dirlo, denota comunque una notevole creatività nel partorire una serie di riff belli almeno quanto agghiaccianti e nel programmare sapientemente la drum machine.
Come già dicevo prima, il repertorio da cui attinge Wrest è senza dubbio quello del black più ruvido e incalzante, dotandolo però di atmosfere depressive e angoscianti: a fianco alle ritmiche tipiche delle più violente cavalcate in “norwegian black metal style”, troviamo quindi partiture per chitarra alienanti e angustiate, prodotto di un animo tormentato e sull’orlo del disastro emozionale. I ritmi sono sincopati, zoppicanti mentre al contrario i riff si susseguono con la continuità eversiva di un fiume in piena, trascinando il povero ascoltatore in un gorgo senza uscita.
Ebbene si, il disco in questione ha la capacità di incrinare il buon umore e lasciare un senso di amarezza anche nel più solare degli ottimisti: ciò che stupisce è che non lo fa tramite un’atmosfera malinconica e tragica (come tanti gruppi black doom alla Dolorian), ma con un clima di travaglio interiore molto sinistro aiutato da una produzione che si sposa perfettamente con la proposta (sporca e molto confusa). Una canzone esemplificativa è secondo me “He Whom Shadow Moves Toward”, a parer mio la migliore dell’album (anche perché forse è quella che meno sente gli influssi del raw black, genere a me abbastanza ostico): riesce infatti a coniugare perfettamente il trascinante vortice di dolore emotivo con invece altri pezzi più decadenti e misurati. Se su tutto questo provate a inserire una voce molto filtrata che cambia dal più classico sceaming a urla che sembrano il lamento delle anime dei dannati, capirete che il risultato è un vero viaggio dantesco nelle profondità della mente umana.
L’unico difetto del disco, se così lo vogliamo chiamare, è che per apprezzarlo nel completo bisogna essere in una disposizione d’animo che io non auguro a nessuno; un tale clima può essere compreso appieno solo da chi vive una situazione emotiva difficile, da chi ama crogiolarsi nella spirale della sofferenza e vive la propria vita come se dovesse finire nel giro di pochi minuti. Se anche una persona del genere non si trovasse “accidentalmente” (in senso aristotelico) a soffrire in quel preciso istante, basterebbe ascoltare una sola canzone per precipitare nuovamente nella consueta condizione. Al contrario, per chi generalmente vive in maniera se non quieta almeno controllata, questo cd non rappresenterà altro se non il buon parto musicale di una mente disturbata. Rappresentando, insieme al successivo “Tentacles Of Whorror” , uno dei pochi capitoli completi della discografia di Leviathan (gli altri lavori sono una specie di oceano di Split, Demo e Mini Cd), non può che meritare il massimo dei voti: quelli dalla sensibilità più fragile troveranno un dolcissimo veleno in questo album, in grado di generare tanto dolore quanto fascino…
“Infin che‘l mar fu sopra noi richiuso”…
Carico i commenti... con calma