Varie volte, nell'ultimo anno, mi è capitato di incrociare nel mio navigare telematico articoli iper-entusiastici riguardanti Lewis Taylor, polistrumentista inglese al confine tra Il Soul e la Psichedelia. Colpito dall'emozionata convinzione di chi scriveva recensioni o articoli sul Nostro, mi sono deciso ad acquistare il CD omonimo, primo suo album prodotto dalla Island, datato 1996, un album che aveva avuto uno scarsissimo riscontro di pubblico. I primi ascolti sono faticosi: l'album non è facilmente digeribile, i suoni particolari, le linee melodiche strane.
Questo per i primi 5 o 6 ascolti.
Poi accade qualcosa di pazzesco. La musica di Lewis comincia a prendermi, a mettermi al muro, a sbattere la mia testa contro le mie proprie convinzioni.
1)Lewis Taylor ha scritto e arrangiato tutta la musica dell'album.
2)Lewis Taylor ha creato tutte le liriche dell'album.
3)Lewis Taylor ha suonato tutti gli strumenti e cantato tutte le voci presenti nell'album.
Ascolto, ascolto, riascolto e ascolto ancora e mi chiedo cosa possa esserci di migliore.
L'album si apre con "Lucky", un pezzo oscuro e già programmatico per quanto riguarda l'intero album. L'intero brano poggia su una sbilenca ed ipnotica linea di chitarra, circondata da lontane evoluzioni hendrixiane e da archi e cori degni della migliore tradizione Soul; uno spettacolare basso slappato (non a caso Lewis è stato bassista degli Gnarls Barkley) chiude il primo viaggio. Simili atmosfere si ritrovano all'inizio del secondo brano, "Bittersweet". Il nome del brano dice tutto: geniale, infatti, è il cambio d'atmosfera del brano a cui si assiste verso la fine del pezzo. Si prosegue con "Whoever", magistrale pezzo Soul dotato di un groove raffinato ma trascinante, per poi proseguire con l'R&B psichedelico e vagamente "Gayeano" (ascoltate bene i cori) di "Track"; anche qui Lewis non si risparmia con escursioni chitarristiche degne del miglior Hendrix. Ancora più psichedelica, se vogliamo, è "Song", dotata di una batteria vagamente Dub e di chitarre di ogni tipo. In "Betterlove" il Nostro instaura uno splendido dialogo cantato tra sè (solista) e sè stesso (il coro), mostrando una volta per tutte l'espressiva poliedricità della propria voce. "How" è un pezzo dall'aria vagamente Blues, come Lewis ci fa chitarristicamente notare negli ultimi secondi della canzone (non so quanto si fosse capito, ma ha eccellenti doti anche nella pratica questo strumento). Il pezzo numero otto si intitola "Right", pezzo emblematico poichè di genere non univocamente identificabile, pur mantenendo i soliti standard qualitativi esageratamente elevati. Il disco si chiude con due perle assolute, "Damn" e "Spirit". Il primo è un pezzo viscerale e sviscerante, dove la voce di Taylor raggiunge brevi picchi di un'intensità ed espressività difficilmente eguagliabili; il secondo, invece, è un brano etereo, spirituale (come da titolo): unico strumento la voce, la quale, ancora, dona momenti di rara bellezza ed emozione.
"Lewis Taylor", per quanto mi riguarda, è più di una semplice opera musicale; è bensì un viaggio bellissimo e sconvolgente, uno schiaffo e una carezza; è un intangibile ma inestimabile tesoro il quale mi mette in crisi tanto quanto mi rende felice. "Lewis Taylor" è un grido colmo di disperazione, di amore insano; inquietante, geniale, spettacolare. Perfetto.
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