Questo è un gran disco di una grande artista. Inciso ed edito nel 2009 da Lhasa de Sela, un anno prima della sua prematura morte, “Lhasa” è il suo lavoro più conosciuto e venduto, nel rispetto dell’assurdo e macabro meccanismo commerciale che lega il trapasso dell’artista con la crescita del fatturato, in seguito all’ondata emotiva delle masse.

Come da prassi, anche in quest’opera l’artista stabilisce un punto di rottura con lo splendido precedente “The Living Road”, il quale a sua volta si era allontanato da “La Llorona”, disco d’esordio con calde sonorità ispaniche.

Opera certamente matura e intimista, forse meno spensierata rispetto ai precedenti, “Lhasa” riflette le esperienze (non solo musicali) maturate nei sei anni di silenzio discografico. L’album contiene una decina di lente canzoni, rilassanti melodie ricavate da costanti ricami di piano o chitarra. Questi generano un ritmo dolce ma mai melenso, come una gongolante ninna nanna. Una batteria asciutta e l’avvicendamento di svariati strumenti completano il lavoro. Ma è la mano della sarta, esperta, a dettare le regole: la voce eclettica di Lhasa, come una cerniera, irrompe in maniera imprevedibile, prende le varie stoffe e genera una coerente visione d’insieme, come in “Is Anything Wrong” (arricchita dalla piacevole arpa di Sarah Pagé) oppure squarcia il tessuto e insinua nell’orecchio, fino ad allora ebbro di melodia, una impercettibile sensazione di angoscia e turbamento (“Rising”, “What Kind of Heart”). Paga il debito con il soul nella vivace “Love Came Here”, nella malinconica “Bells” e nella intrigante “The Lonely Spider”, accarezza il pop in “Fool’s Gold”. Infrange il sogno mistico e bucolico dell’ascoltatore nell’enigmatica “1001 Nights” salvo poi costringerlo a riprendere in “I’m Going In” nella struggente “Anyone and Everyone” in un crescendo di disagio e malinconia. Si è avvolti, sballottati e infine intontiti.

Tirare le somme è difficile. Si ha la sensazione di una ricerca articolata, complessa, tormentata. Una musica piacevole e dolce, ma una voce che, nel tentativo di adattarsi al contesto, finisce per celare in malo modo una malinconia di fondo. Forse è proprio quella onda emotiva, quel pregiudizio mentale, quel “è morta e non la sentirò più” a giocare un brutto scherzo. Ascoltare la cupezza anche dove non c’è, sentire costantemente un groppo in gola per cinquanta minuti. Forse è la rabbia contro un male incurabile che ha portato via questo grande talento. Pensieri, o meglio tarli. Circa la conoscenza della sua malattia durante la concezione e la registrazione dei brani, circa la speranza di avere ancora una vita intera davanti, circa l’eventuale possesso di quella “ispirazione ultima”, di quella “musa” (orribili termini, lo so) che invoglia a generare un’opera di tale intensità. L’unico dato concreto è questo splendido disco. Era un’artista a tutto tondo, competente e aperta a ciò che le stava attorno.  L’ispirazione, quella vera, l’ha sempre avuta. Il rammarico consta nel dubbio, dubbio sulle enormi potenzialità stroncate, sui futuri progetti neanche lontanamente pensati.

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