Okay, sgombriamo subito il campo dai dubbi: non basta chiamarsi Litfiba – e dunque, saccheggiando vigliaccamente il titolo dell’album, sembrare i Litfiba – per essere i Litfiba.

Accidenti a loro, non è rock, questa roba qua. È pop travestito da rock. Passateci i toni un po’ sbrigativi, ma è proprio così. Intanto, per dirla tutta, ci fa proprio inc… che qui dentro ci siano solo nove brani (!). Ma insomma, quattro anni per scrivere nove canzoni – e in mezzo solo “Larasong”, colonna sonora di un videogioco?

È questa la creatività di Cavallo, Renzulli e compagniabella? E poi, dove sono finiti i guizzi di un tempo, la violenza, la sana irruenza di un gruppo che un tempo era davvero “contro” ? Se mettete quest’album sullo stereo a un volume medio, sentirete un flusso uniforme con qualche riff di chitarra qua e là, la batteria in sottofondo, la voce di Cabo più o meno rauca. Anche i testi affrontano tutto sommato le tematiche di sempre: il respiro del mondo, il segno del viaggio, il vento senza tempo, il desiderio di sentirsi vivi (“Giorni di vento”, che pure ha una bella linea melodica, delicata, pulita, essenziale); un anticonformismo un po’ forzato, che avrebbe senso se i Litfiba fossero una teen-band ma che, essendo loro ormai più che adulti, suona sospetto (in “No mai”: “Siete gentili a dirmi cosa fare per non sbagliare/ Non vi dispiace se provo a camminare con queste gambe che ho"). E poi la forza dell’amore mescolata agli elementi naturali (in “Alba e tempesta”), l’ardua scelta tra umano e divino e l’invito alla coerenza (ancora!) in “Prendere o lasciare”, il mistero e l’esoterismo – tanto per cambiare – in “Mistery train”, l’anima dell’uomo che è anche l’anima del mondo in “La tela del ragno”, che tutto sommato resta uno dei brani più incisivi qua dentro.
E poi ancora il fuoco e le allusioni al diavolo (!) e alla dannazione addirittura in due canzoni di seguito, “Sette vite” e “Stasera”.

Accidenti, accidenti! È un dolore criticare una band che ha fatto – davvero – la storia del rock italiano, e che ora, però, ha bisogno di una seria riflessione. Questo disco non è brutto, nel senso che non ha proprio nulla di sgradevole, ma dai Litfiba ci aspettiamo qualcosa di più. E allora: cari Litfiba, nessuno nega che restate degli ottimi musicisti, che la dimensione live è pane per i vostri denti, che un vostro concerto è sempre una sferzata di energia, che il mestiere lo conoscete… ma insomma, dov’è finito il genio?

E soprattutto: che intenzioni avete per il futuro? Che direzione volete prendere davvero, al di là degli obblighi di pubblicare un album ogni tanto per non sfuggire al vuoto e all’oblio?

Lo cantate anche voi in “Sette vite”: “Chi sei, se sei, chi sei, dove andiamo?

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