Una bionda con grandi occhi azzurri, codini e bikini, in spiaggia. Perde accidentalmente il pezzo sotto del bikini. Rimane in mano al maldestro amico con cui sta parlando in seguito al tentativo di costui di aiutarla a togliere da li uno spillo. È un frammento del film Psycho Beach Party, filtrato con colori acidissimi e disegni vertigo, proiettato sullo sfondo di un palco in un locale alessandrino totalmente al buio (in stile Pink Floyd primissimo periodo) e sul quale sta suonando gente in abito da beccamorto, che indossa maschere da wrestling messicano, fa del rock strumentale con abuso studiato di tremolo e fa strani balletti mentre suona. Surf music, rockabilly, garage, sullivan rock, arcibald e braccobald rock amalgamati assieme. Sta roba sul manifesto all’entrata del locale veniva definita semplicemente surf rock. È il ricordo della prima volta che ho sentito Los Straitjackets. Risale a poco meno di una decina di anni fa, periodo in cui evidentemente avevo ancora le idee un po’ confuse su quali siano i piaceri della vita, considerando il cuba libre che mi vedo in mano e i baffi che avverto sotto il naso in quel ricordo.

I due chitarristi e il bassista suonavano strumentazione esteticamente orribile, marca “Di Pinto” (boh), probabilmente una scelta obbligata per chi ha fatto della variazione dell’intonazione del suono la propria ragione di vita. Parevano alette staccate da ottovolanti si cui avevano messo le corde, con una combinazione di colori (argento con battipenna arancio) che dovrebbe essere fuorilegge in qualsiasi nazione che ha a cuore il benessere delle persone che vi abitano. Ma pur orribile anche l’estetica degli strumenti era funzionale alla messa in scena studiata dalla band per far risultare il loro surf rock ancora più psichedelico. Ricordo la sensazione di straniamento, di trovarmi a qualcosa di simile ad un party horror anni 60. Farsi dei viaggi con la brocca ad Alessandria (ad Alessandria!), senza spintarelle, è veramente un'esperienza strana. Di nomra sarebbe facile come dimostrarsi perspicaci mentre una donna bellissima sta provando a succhiarti via l’amina dal corpo attraverso il pisello.

Questi Straitjackets, quando dicevano qualche boiata tra un pezzo e l’altro, lo facevano in spagnolo. “Saranno messicani” mi fa un amico. “Perché non spagnoli?” dico io. E lui mi spiega sta cosa delle maschere. In realtà si tratta di gente di Nashville, e probabilmente nella loro vita sarà capitato più Messico nella loro testa e, forse, nelle loro vene, che sotto i loro piedi.

Va beh, come non capirli, penso che qualsiasi essere umano di sesso maschile che non si depili e che non sia messicano, desideri di possedere qualcosa di messicano: un dio, i funghi in giardino, i debiti, un’amante, i rospi vicino ai funghi in giardino, un chiosco sulla spiaggia, un nome … un nome come Ramon ad esempio. Utile. Ci sono cose che non è possibile dire esplicitamente ma è opportuno comunicare, come “nelle mutande ho qualcosa di clamoroso!”, ma se porti quel nome poi riuscirci semplicemente presentandoti: “piacere, Ramon!”, non serve dire altro.

Somma che con le belle sensazioni che mi aveva lasciato quella serata sono andato a cercarmi qualcosa di Los Straitjackets. Volevo un live. Scelgo “Damas y Caballeros!”, primo live pubblicato dalla band. Ve lo propongo se siente interessati al genere perchè è un buon bigino del loro prima produzione secondo me. Le esecuzioni sono abbastanza fedeli alle versioni in studio, con in più quel po' di sporcizia ed aggressività nel suono caratteristico del live che a me garba tanto, e direi anche che comprende i pezzi migliori del repertorio di quel periodo (lascio una versione di Tempest, non del disco perché sul tubo non l’ho trovata, e Tailspin). Quasi tutta roba originale. La loro proposta è quella che ho descritto velocemente all’inizio. Surf music/ rockabilly/garage strumentale. Pezzi che ruotano tutti attorno a riff ben definiti con atmosfere da B movie horror (in stile sigla The Munsters). Sezione ritmica bella solida, pochi virtuosismi, fuochi d’artificio lasciati ai due chitarristi, assoli non male. Nel disco c’è anche una manciata di cover tra cui segnalo un classico di surf music, Sleepwalk. Ad essere onesti, tolta da un contesto live vissuto in prima persona e senza l’aspetto visivo dell’esibizione, la loro musica perde un bel po' di suggestività. Perosnalmente fa l’effetto dello ska: i pirmi tre pezzi wow, poi stufa.

Dal vivo però meritano assai per me.

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