La magistrale e suggestiva cornice dell’Anfiteatro romano di Cagliari è stata lo scenario ideale per l’ultima tappa del Tour Europeo di Lou Reed. L’evento è risaputo: il rock and roll animal ha portato in scena un mastodontico allestimento per il suo album più ambizioso, malato, e probabilmente migliore: “Berlin”.

Inutile entrare nella polemichetta se tale tour sia per zio Lou uno spontaneo e meritato tributo a uno dei suoi lavori più controversi e ignorati dal grande pubblico, o una fastidiosa e auto-indulgente celebrazione, incapace di cristallizzare l’energia pura di lavoro nato in tempi e circostanze irripetibili: recensendo un concerto non c’è spazio per concettose riflessioni, ma è l’analisi dell’alchimia tra spettatori e palco a dover recitare il ruolo di primo piano. E tale alchimia ha funzionato alla grande sotto il cielo stellato e limpido di Cagliari, grazie anche a un pubblico cronicamente a secco di eventi di tale portata.
Accompagnato da una trentina di valorosi elementi (tra cui il New Children Choir e gli elementi della Metropolitan Orchestra di Londra), Lou ha sapientemente rappresentato la sua opera, con l’ausilio di calzanti filmati su uno schermo nello sfondo e con un efficace gioco di luci: squarci terminali di decadenza mitteleuropea, rinforzati quando, col suo vocione asciutto, il buon Lou ha fatto gocciolare il celebre incipit.

Lady day” e “Men of good fortune” hanno portato subito lo spettacolo nel suo cuore espressionista, mediante un suono massiccio e compatto, eccitato e cangiante nel sezionare la narrazione lenta e funerea dell’opera originale, insistendo forse un po’ troppo del dilatare i refrain, ma con una brillantezza di fondo comunque tagliente. Anche la prima parte di “Caroline Says” si è arrampicata in un finale vertiginoso, ancorata all’uso estensivo dei fiati, con un sapore rythim and blues notevole. Lo stesso trattamento ha giovato certamente al classico “How do you think it feels?” (in particolare il celebre intro), tirata fino allo spasimo mentre nella resa di “Oh Jim” vi è stata forse qualche crepa, in particolare nella parentesi alla “Metal machine music” con cui Lou ha fatto vibrare tra le suggestive rovine romane il feedback della sua sei corde per un minuto abbondante: ma sono sfumature ininfluenti.
Ci hanno pensato la seconda parte di “Caroline says” e “The Kids” a sterzare la storia verso il suo tragico epilogo, tra immagini poetiche di improvvisa brutalità e squarci lirici maestosi, mentre le chitarre acustiche e i violini si guadagnavanoo il meritato spazio, Straziante come sempre “The Bed”, nonostante un Lou zoppicante nell’esecuzione, per quanto coadiuvato dal coro di voci bianche: ma rimane pur sempre uno di quei pezzi capaci di raggiungere vette invalicabili per migliaia di artisti, e inversi come “This is the place where she cut her wrist /that odd and fateful night” un brivido ti correva lungo la schiena. Il finale corale di “Sad song” ha poi sintetizzato la grandiosità del lavoro, regalando una vibrante eco di tutte le sfuggenti voci dell’esistenza umana.

Questo è Lou Reed oggi, un adorabile babbione capace di mettersi in discussione nei bis, gigioneggiando anche un po’ troppo (si vedano gli infausti gorgheggi affidati a Fernando Saunders in “Satellite of love”), ma a cui sono bastati i tre accordi di “Sweet Jane” (impreziosita dal canto della corista Sharon Jones) o il narrare per l’ennesima volta le sue storia di ordinaria depravazione metropolitana sul giro di basso più famoso della storia del rock – vivacizzata oltretutto dagli insistiti assoli di Steve Hunter, protagonista come sempre - a lasciare il segno e a farci sognare di essere, in fondo, in un’altra epoca.

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