Non avrei mai scritto questa recensione se non mi fossi appassionato a questo romanzo durante i miei studi universitari; alcuni dei concetti che mi sono stati ispirati per guardare il libro di Céline in modo critico li ho infatti assimilati dai testi critici di Paolo Tamassia nel volume a cura di Lionello Sozzi, "Storia della letteratura francese", e dalle presentazioni critiche di Ernesto Ferrero, curatore della traduzione italiana, sia nell'audiolibro del romanzo stesso che all'interno dell'edizione Corbaccio.

Charles Bukowski lo sapeva bene chi era Louis-Ferdinand Destouches, quando nominò questo medico parigino come una delle sue principali influenze, nonché una delle personalità letterarie che amava di più. Céline, si faceva chiamare lui. Come specificò Ernestop Ferrero, non era il suo vero nome ma quello dell’intrepida nonna che aveva molto amato e che forse gli aveva in parte ispirato il personaggio della vecchia suocera Henrouille, talmente energica nella sua vecchiaia da sfiorare quasi l’idea stessa di immortalità. Nato in un sobborgo di Parigi nel 1894, aveva 38 anni quando uscì questo romanzo, ma sembrava già che avesse vissuto una vita intera e che ormai non ci fosse più nulla da spiegargli sulla vita stessa. “Dio l’aveva creato per dare scandalo”, disse Bernanos. E forse non aveva tutti i torti.

Céline si era preparato a modo suo per questa prova. Aveva letto tanto, ma soprattutto aveva ascoltato tanto. Come scrisse Ernesto Ferrero, già all’epoca del racconto umoristico “Des Vagues”, del 1917, portava avanti la sua intensa attività di lettore e di osservatore della realtà; non c’era dialogo che non passasse sotto le orecchie attente del giovane Louis-Ferdinand, a prescindere dal suo ceto sociale di appartenenza. E così, lettera dopo lettera, parola dopo parola, lo scrittore si tolse le viscere per spiattellarle in quel meraviglioso dattiloscritto di 900 pagine, che fu inviato all’editore Robert Denoël nell’Aprile del 1932. Immediata la sorpresa quanto l’entusiasmo. Il romanzo fu pubblicato quello stesso anno per essere poi insignito del premio Renaudot, senza che la sua casa editrice fosse riuscita a trovare anche un solo termine per riuscire a definirlo come si deve.

Un libro dal titolo enigmatico, “Viaggio al termine della notte”. Il viaggio del protagonista Ferdinand Bardamu, da patriottico soldato al fronte nella Grande Guerra a medico dei poveri nei più degradati sobborghi della capitale, ma anche il viaggio del lettore in queste pagine oscure quanto illuminanti, come anche il viaggio di chiunque altro uomo su questo mondo infame, tanto affascinante nei suoi paesaggi crepuscolari quanto continuamente minacciato dalla degradazione.

Una straordinaria contro-epopea contemporanea
, un viaggio indescrivibile che, in un colpo solo, capitolo dopo capitolo, affronta di petto tutti i grandi mali del secolo in cui venne scritta, sporcandosi di terra nelle trincee della Grande Guerra, soffrendo con i neri bastonati in un’Africa coloniale che si sente sempre più abbandonata dalla madre patria, indignandosi per le meschine rivalità del mondo medico e accademico, nascondendosi in una realtà americana che di cui sembra impossibile diventare parte integrante e soddisfare i propri desideri, coprendosi gli occhi per le follie di una degradazione urbana sempre più violenta e corrotta, alienandosi inghiottito nel gioco del fordismo e della sua grottesca catena di montaggio, ghignando di fronte alla stupida ipocrisia di un patriottismo sofista e fine a sé stesso , spinto più dall'economia che dall'eroismo, come anche della morale consumistica e del sentimentalismo romantico fine a sé stesso, ma anche commuovendosi in quegli atti di generosità nascosti proprio nel cuore di chi non ti aspetteresti mai. Tutto questo, sempre con la sensazione di essere continuamente perseguitati da un’ombra opprimente: quella della morte; disfacimento fisico, come del resto morale, di un corpo che, come scrisse Paolo Tamassia, non sembra altro che il gracile guscio; è il guscio delle nostre paure, sempre pronto per essere sbriciolato e fatto a pezzi, esternamente dalla guerra come internamente dalla malattia.

Un’opera semplicemente rivoluzionaria, che scardinava ogni certezza della falsa e ipocrita classe borghese dell’epoca, già solo nel linguaggio, ancor prima dei contenuti. Al bando il francese accademico, quello formale, composto ed educato degli scrittori ottocenteschi. Il libro di Céline puzzava di vita vera, di parlato quotidiano. Come osservò Paolo Tamassia, era un linguaggio che non fu semplicemente trascritto quanto piuttosto deformato per adattarsi al tono della narrazione; molti scrittori prima di lui avevano utilizzato la lingua parlata nei loro romanzi, ma nessuno come Céline era riuscito non solo a estenderla all’opera per intero, ma anche a trasformarla in una vera e propria musica per l’anima. Una cantilena che nascondeva tanto la sofferenza per il destino comune della morte quanto la sferzante ironia con cui riuscire ad affrontare il marciume della vita. Un linguaggio che trascendeva le parole stesse, quasi come se fosse più un dialogo con un lettore che, in fondo, non era molto diverso dal narratore stesso.

Un libro in grado di analizzare tutta l’assurdità del Novecento per poi smontarla pezzo per pezzo, con una ricchezza contenutistica da capogiro, impregnata in una lingua che ci immerge completamente nei labirinti delle parole. Tutto questo a dispetto di una continua e fragorosa risata, un digrignare che si trasforma inevitabilmente in ghigno, in un mescolamento di registri che rende l’opera l’esempio perfetto di come il comico più potente possa venir fuori proprio dal tragico senza scampo, in una sintesi degli opposti che mette a nudo la vera essenza grottesca della nostra vita umana.

Uno dei più grandi capolavori della letteratura francese di ogni tempo
, così come fu prima di lui per i grandi romanzi di Flaubert, di Zola, di Maupassant, di Proust o di Gide. Un’opera di caratura difficilmente raggiungibile, affrescata da uno scrittore che potremmo definire di livello superiore. Da leggere assolutamente almeno una volta nella vita, per poi custodirlo gelosamente e lasciare che accompagni anche noi nel nostro, personale, viaggio fino al termine della notte.

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