Diciamo che questa domenica l'ho passata a letto, credo di essermi alzato alle 9 di sera. Avevo bisogno di una sigaretta, per cui ho preso e sono uscito.
Ora però sono le 5 del mattino di lunedì.
Nottata passata a giocare a poker e a bestemmiare contro gente che va all-in con 7-2 e si becca un full al flop. Ma dico io.
Nottata passata all'insegna della musica, di un gruppo in particolare: i Low.
Eh... I Low. Difficile parlare di questa (leggendaria) band. Io stesso fatico a trovare le parole.
Sbucati ormai 17 anni orsono, in quel 1994 pregno di uscite tutt'ora ricordate. Ma in quell'anno ero troppo piccolo per conoscerle, in effetti ero appena nato. Del 1994 è il loro esordio, e che esordio: quel "I Could Live In Hope" che, insieme all'intero movimento detto slow-core, ha diviso in due gli ascoltatori. Un movimento che s'è visto incantare, ma anche annoiare a morte. Fiero sostenitore della prima fazione.
"I Could Live In Hope", e chi se lo scorda? Ricordo ancora la prima volta che lo ascoltai. La prima volta che il sommesso giro di basso iniziale di "Words" si facesse largo nei miei timpani, la prima volta che la coda di "Lullaby" mi fece commuovere come poco altro è riuscito a fare, la prima volta che la chiusura "Sunshine" mi fece piangere a dirotto, così rassegnata, ma racchiudente l'unico spiraglio di speranza dell'intero lavoro. Ciò che la gente chiama emozioni indimenticabili, impossibili da provare ancora.
E invece, le stesse emozioni fatte provare dagli stessi autori della prima volta.
Ormai li abbiamo visti in molte forme, persino a dilettarsi in contaminazioni elettroniche nel claudicante "Drums And Guns", ormai penultimo album in studio.
In questo 2011, con "C'mon", tornano alle radici, lo (s)low-core, sposandolo col più classico dei generi: il folk-rock.
Il suono Low è ormai il più cristallino e riconoscibile che ci sia, quelle melodie disperate, rassegnate, più nere di quanto sembri. Nubi temporalesche che non riescono ad erompere come dovrebbero. Che, però, nascondono una minima vena speranzosa talvolta difficilmente individuabile.
"C'mon", ovvero: come dovrebbe suonare un disco folk-rock nel 2011, come dovrebbe emozionare un disco nel 2011, come un disco dovrebbe chiudere un'imponente carriera nel 2011. Non voglio portar sfiga, questo è ovvio, ma se dovessero voler chiudere i battenti, lo facciano ora con un perfetto canto del cigno quale sarebbe questo lavoro.
Il disco, che dire del disco? I Low al massimo del loro splendore. Ballate narcolettiche, soffici ed ipnotiche melodie che conquistano sempre più ad ogni ascolto.
E pensare che si parte con "Try To Sleep", dolcissima nenia che presenta una vena quasi pop, per poi arrivare a una parte finale che, senza mezzi termini, ferisce. La carne e l'anima.
Quella "$20", commovente nella sua semplicità, in quei versi cantati con una disperazione di rara sincerità. Una frase, "My love is for free", ripetuta più volte, che incanta e al contempo strugge.
Quella "Nothing But Heart", catartica e ripetitiva, che ipnotizza l'ascoltatore sin dalle prime note, e lascia scorrere il tempo senza che esso se ne accorga.
E infine, in chiusura, quasi come da tradizione il trio ci piazza quella che sembra essere l'unica composizione presentante un minimo di speranza nell'intero lavoro. Come hanno fatto ad esempio in "I Could Live In Hope" con "Sunshine", o in "Secret Name" con "Home", qui lo fanno con "Something's Turning Over", ballata acustica dal retrogusto agrodolce che suona quasi come un augurio ("No, I don't think we'll ever see their faces. No, I don't think we'll ever see the end.").
Questo disco, come ogni altro dei Low, è in definitiva la colonna sonora dei nostri ricordi. Delicato, poetico, intimista, ma anche struggente, doloroso, pesante nel senso fisico del termine: un vero e proprio mattone sul cuore. Come potrebbe essere un ricordo, che sia vicino, lontano, fresco o recondito. Un disco che sa farci rivivere un ricordo, nel bene o nel male.
"Lullaby was not supposed to make you cry", cantavano in "Lullaby" nel 1994.
Sarà davvero così? Che lo sia o no, lo hanno fatto anche questa volta.
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