Tra le fredde pareti del Rolling Stone, la prima sorpresa è la piacevole scoperta dei Kid Dakota.
Due giovani provenienti (come gli headliner Low) da Duluth, Minnesota. Chitarra-voce e batteria.
Non so definirne bene la musica. Semplice ed emozionante, spaziosa e pulita, ma irregolare. La voce è molto bella e varia, a metà tra Yorke, Stipe e lo stesso Alan Sparhawk dei Low, che per gli ultimi pezzi li accompagna sul palco insieme al suo bassista, Zak Sally.

Seguono i Doves. Non me ne vogliano i loro ammiratori, ma non credo vadano sprecate troppe parole. Le loro melodie sono carine, ma questi cinque ragazzi inglesi le ricercano senza un briciolo di personalità, finendo per ricordare - a seconda delle canzoni - prima i Coldplay (uguali!), poi gli Smiths (uguali!), poi gli Strokes (uguali!). Arrivati agli U2, uno si stufa. Insomma, melodici sì, ma drittissimi, normali, mediocri. La storia della musica li dimenticherà in fretta.

Non altrettanto si può dire per i Low.

I tre di Duluth la storia l'hanno già scritta, e mi sa che hanno ancora la penna in mano.
Ascoltando il nuovo "The Great Destroyer", mi chiedevo come mai avessero (in parte) rinunciato al loro stile, quel lento e meraviglioso 'sadcore', a favore di un'iniezione di adrenalina rock che ha prodotto una manciata di pezzi godibili ma non sconvolgenti.
Vedendoli dal vivo, ho capito.
Ho capito che anche le schitarrate elettriche, anche gli scatti nervosi con cui Alan adesso scarica feedback, sono immersi in quell'aura poetica e intima che rende ogni loro canzone quasi una preghiera (Amazing Grace è nel capolavoro "Trust"), una confessione, un racconto confidenziale, grazie anche ai controcanti di Mimi Parker (fredda e spezzata la sua voce, come quella di un angelo).
Monkey e California ne sono un ottimo esempio. When I Go Deaf, ancora migliore, per come si sviluppa dal vivo: prima lenta secondo i vecchi stilemi, poi esplosiva (quasi post-rock).

Insomma, l'intensità elettrica dei nuovi pezzi, alla prova del live, non stona affatto con l'intensità malinconica di quelli vecchi (Sunflower) - o di quelli, tra i nuovi, che sono pregni della lentezza tipica dei Low (Silver Rider).
Anzi, si amalgamano benissimo.

Death Of A Salesman è l'apice.
Alan prende la chitarra acustica e canta, si confessa: "So I took my guitar and I threw down some chords", ma "they said music's for fools/ you should go back to school / the future is prisms and math", così "I did what they said / now my children are fed / 'cause they pay me to do what I'm asked", e "I burned my guitar in a rage".
E qui, l'incendio della chitarra diventa reale. Feedback incontrollati per qualche minuto. Un fuoco noise immobile e glaciale, che poi sfuma nei lenti, dolci accordi iniziali... "but the fire came to rest / in your white velvet breast / so somehow I just know that it's safe".

Il voto è ai Low.

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