Per essere una fiction prodotta dalla Rai, tutto sommato mi ha colpito positivamente, per alcuni tratti che non era così ovvio raccontare in questi termini. Di fatto, la figura che emerge è ricca di imperfezioni e idiosincrasie, aspetti che tra l'altro Faber non ha mai fatto nulla per negare.

Le donne, l'alcol, le sigarette, le infedeltà, le assenze. Un buon bigino della dimensione umana di un cantautore che nella sua ispirazione poetica potrebbe di certo essere visto come uno spirito d'una sensibilità aliena, sovrumana. Può essere utile per capire quanto l'esistenza di un uomo simile sia stata sostanzialmente sacrificata all'arte. Immenso nella scrittura quanto fragile nella vita, ansioso, aggrappato all'ennesima sigaretta.

“Le canzoni le scrivo per gli amici”, “Per i concerti non sono pronto”, “Quel verso di Marinella è così banale...”, “Forse non ho più nulla da dire”. Quanti capolavori nati da uno spirito così tremendamente critico verso se stesso. Quelle angosce annegate nel whisky, quelle notti insonni, quelle asprezze del padre e del marito... le pene della vita di chi vive per la poesia e trova la sua dimensione ideale solamente nelle parole che compongono una canzone perfetta. Il resto è tutta sofferenza, un anelito d'eternità che finché non si compie ansima della dimensione tremendamente fallace e dolorosa dello stare al mondo.

Per chi ben conosce l'opera di Faber è in qualche modo consolatorio ed emozionante ritrovare alcuni dettagli puntuali come la “specie di troia” censurata nella Città Vecchia, la Preghiera in Gennaio per Tenco, la giovinezza con Paolo Villaggio, le canzoni sulle crociere, le testardaggini e le mollezze del ragazzo figlio di buona famiglia.

Nella seconda parte l'interesse cala poiché la fiction va a concentrarsi soprattutto sulla storia con Dori Ghezzi e il rapimento in Sardegna. Un'opera come “Creuza de ma” viene riassunta in una scena con i mandolini. Non che mi aspettassi un documentario sulla musica di De André, ma raccontare un artista così senza dire quasi nulla della sua arte è come ritrarlo in absentia, perché il vero Faber è sempre altrove, ma quell'altrove non viene mai veramente mostrato nella messa in scena.

Per di più, il pur bravo Marinelli quasi privo di trucco non rappresenta bene l'incartapecorirsi dell'uomo, affumicato dalle sigarette e corroso dall'alcol. La dannazione della sensibilità convince meno su un viso così pulito, sembra una posa. Un belloccio che non sfiora mai la grave postura esistenziale del vero Faber. Anche le dipendenze così ripetutamente mostrate diventano quasi macchiettistiche se non spiegate o approfondite. E in ogni caso, è un errore registico continuare a mostrarlo mentre si accende sigarette o beve bicchieri, perché non è necessario. Avrebbe potuto indagare meglio sui motivi di quel senso di vuoto, di quella vertigine, ma non sarebbe stata una fiction Rai. Ecco, guardandolo ho desiderato un film d'autore su Fabrizio. Ma francamente, ridurre una simile figura a due ore di cinema sarebbe una prova quasi impossibile per chiunque.

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