Se solo dieci anni fa mi avessero detto che avrei rivisto i Police o Dalla-De Gregori dal vivo, avrei risposto che si trattava di un'impossibile e illusoria follia.

Oggi li ho rivisti. Senza nostalgia, senza piacionismi, senza inutili paraculismi. Buona musica. Solo vecchia e buona musica.

Lucio Dalla e Francesco De Gregori, ormai diversissimi signori, zii e quasi nonni del cantautorato italiano, hanno messo insieme un progetto perfetto. Un concerto d'una volta e, al contempo, squisitamente attuale.

Hanno fatto le cose onestamente, senza grottesche promozioni dei dischi recenti, né patetiche riesumazioni dell'irripetibile "Banana Republic".

Insomma: sono stati intelligenti, quali sono. Intelligenti ed inevitabilmente nostalgici, ma solo nella misura nella quale è nostalgica, meravigliosamente nostalgica, ormai, la musica che fanno.

Una musica fatta di parole. Quella via mediana tra la parola cantata e la letteratura pura. Tra il rock e la poesia. Tra l'Italia vissuta e l'America sognata.

Quel fenomeno seppellito dall'ignoranza dei discografici, dalla distrazione televisiva e divanosa dei nostri poveri connazionali, dal disinteresse per tutto ciò che è pensiero e riflessione, ridotti a nicchia da una vagonata di lustrini, tette, culi, urla, e distrazioni di massa varie.

Ma lì, in quel teatro gremito (e sarebbe stato così anche le sere a venire) s'è sentito palpabile il battere d'un cuore di un'altra Italia. Un cuore fortissimo e pieno di emozioni, che non ce l'ha neanche per una balla d'andarsene a morire nel cassettino nel quale questa società di magnaccia lo vorrebbe a tutti i costi chiudere.

E qui sta il messaggio muto, grandissimo. Un po' come se Pavese o Calvino avessero fatto capolino in radio a leggerci un racconto, o Fellini avesse potuto fotografare anche le facce italiane di oggi, più grottesche e cinematografiche che mai, anche se nessuno sembra accorgersene.

È stato un messaggio dal passato. E, speriamo, dal futuro di questo nostro splendido e disperato Paese.

E veniamo alla musica, dal momento che la veste, splendida, era quella lì.

Ed anche nella musica c'è stata una sconcertante, inaspettata (anche se non imprevedibile), prova d'intelligenza.

Anzitutto la scelta di non fare assolutamente alcunché di promozionale. L'ultimo disco in studio del Principe non ha ancora due anni, mentre quello di Dalla, sostanzialmente, è appena uscito.

Bene: nessun brano non solo di questi ultimi due dischi (neppure, al limite, quelli che avrebbero meritato...), ma nulla degli ultimi due, tre album di ciascuno (brano più recente di Dalla: "Canzone"; di De gregori: "Pezzi").

E il repertorio non ha giocato sul banale...: certo, c'erano ovviamente i grandi successi (d'altra parte, se aveste avuto fortuna, merito e talento per scrivere "La donna cannone", poi non la cantereste in giro...?!) ma si contavano a manciate anche le chicche (soprattutto del Principe: "Due Zingari", "I Matti", ma anche di Dalla che, per l'occasione rispolvera una perfetta "Milano", o anche "Nuvolari"...), in un concerto che ha quasi toccato le tre ore di musica, coi protagonisti sempre sul palco e non più di otto secondi tra un pezzo e l'altro.

Band ben nutrita ed ineccepibile, aggraziata dagli archi veri che, per quanti passi mostruosi faccia la tecnologia, suona e suonerà sempre meglio d'un tastierone... Unica pecca, a mio modestissimo avviso, i suoni della batteria, ma mi rendo conto di spaccare il capello (oltre che, ovviamente, i maroni).

Insomma: musica splendida, storia, meraviglioso ambiente sia sopra il palco che sotto.

Una serata indimenticabile che ha avuto, come tutte le prove dell'esistenza del Dio Gusto, la capacità divina d'annullare il tempo.

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