Lush è il nome di una compagnia di cosmetici fondata nel 1995 e presente in Italia più o meno da fine anni Novanta. Si sparpaglia per il territorio con negozietti piccoli e poco invadenti, insegne verdi, gialle e bianche; la nuvola di fragranze che scappa dalle sue vetrine la riconosci a una decina di metri di distanza, ricordo che il suo pezzo forte erano le palle colorate da gettare nella vasca da bagno, alcune delle quali rilasciano fastidiosissime foglioline che ti rimangono appiccicate ovunque alla tua uscita. Ma proprio ovunque. Un paio di volte ci ho trovato regali interessanti in assoluta mancanza di idee, poi le idee mi sono venute successivamente immaginandomi il suo corpo avvolto nell'abbraccio del sapone che avevo scelto per lei.

Split è una città della Dalmazia in cui non sono mai stato, italiana per un breve periodo con il nome di Spalato; l'unica cosa che conosco è via Spalato a Milano. Giochiamo con un po' con Alchemy, e mettiamo insieme Lush con Split: con la stessa sorpresa di veder saltar fuori la Luna dall'unione di Cielo e Formaggio, ecco che se uniamo il sapone con Spalato salta fuori un disco di monumentale dream-pop partorito a metà anni '90, da una band britannica che si definisce - non a torto - Shoegaze. I Lush - Emma Anderson, Chris Acland, Miki Berenyi, Phil King - rimangono attivi per circa un decennio a partire dal 1987, poi probabilmente messi in ombra dalla Lush delle palle colorate decidono di scomparire nello scarico della vasca da bagno, lasciando disseminate lungo la scia pendente e giallastra dell'acqua morente diverse incrosazioni che non si fanno via nemmeno con il getto più forte. Rispetto all'esordio "Spooky", questa seconda pietra appare più solida, una continua ricerca della perfezione; scopo loro è quello di trovare l'equilibrio fra l'incombente ondata di Brit Pop che di lì a poco sommergerà il Regno Unito, e l'amato fissascarpe di Ride, My Bloody Valentine, Medicine. Se il primo piatto della bilancia viene appesantito da brani veloci, semplici - ma mai banali - da ascoltare mentre suona la campanella dell'ultima ora in una scuola degli anni Novanta ("Blackout", "Kiss Chase", il singolo "Hypocrite", praticamente tutta la prima metà dell'album), è il materiale posato sul secondo piatto per pareggiare il conto a risultare illuminante: l'orecchio comincia a brillare laddove i Lush liberano i sentimenti a discapito dell'aspetto radiofonico partorendo brani lunghi e densi di fumo, voglie in bianco e nero e lampioni accesi ("Desire Lines", "Never-Never"), portaerei di suoni ("Undertow"), voce soffocata da una valanga di Noise Pop ("Starlust"), schiaffi in 4/4 ("The Invisible Man").

E' una doppia anima quella di Emma Anderson, fata punk e strega pop, capace sempre di tenere la voce in una dimensione eterea, osserva in volo il terreno di fango e radici costruito dai suoi strumentisti e quando vuole ci lancia sopra un arcobaleno, solo fermandosi su una nota. Tre dischi per i Lush, seguirà a breve "Lovelife", poi la palla di sapone si spezzerà in piccoli frammenti indipendenti. A conti fatti, "Split" sarà quello che venderà di meno.

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