Negli ultimi tempi mi sono messo più volte davanti al computer con la voglia di scrivere qualcosa su Lucio Battisti.
Per quelli come me nati a metà degli anni 60 del secolo scorso (che impressione fa a dirlo..) Battisti e’ stato la musica che suonava nell'aria il primo giorno di scuola, il giorno in cui si è riusciti finalmente a togliere le rotelle alla bici, nei campi di periferia giocando a pallone con due sassi come pali delle porte.
Ci sono delle canzoni che sono degli attaccapanni.
Attaccapanni a cui sono attaccati ricordi.
Come dice Camus, in fondo il vero scopo dell'arte non è altro che quello di aiutare l'uomo a riscoprire, per suo tramite, “quelle due o tre immagini grandi e semplici nella cui presenza il suo cuore si è aperto per la prima volta”.
Non per tutti Lucio Battisti può evocare le stesse cose, evocare ricordi, sicuramente non per mia figlia, ad esempio, che ha solo diciotto anni (beata lei).
Come fa notare Hofstadter noi non ascoltiamo Bach come lo ascoltavano i suoi contemporanei o quelli che sono venuti subito dopo di lui.
Per quanto mi riguarda quando penso alla mia infanzia/adolescenza penso in massima parte alle canzoni di Mina, Celentano, Modugno.
E Lucio Battisti, quelle degli anni 70.
A “E penso a te”, che mi ricorda la tipica malinconia di alcune domeniche sere davanti al televisore in bianco e nero.
A “La canzone del sole”, che mi ricorda mia sorella che la cantava in macchina durante i nostri viaggi in giro per l’Italia.
Ma in generale, senza nessuna canzone in particolare, e’ la musica di Battisti che è il foglio colorato su cui sono scritti quasi tutti i miei ricordi di vita di quegli anni.
Come dice Manuel Agnelli, e’ la luce che era diversa negli anni 70.
E il merito era soprattutto della musica di Lucio Battisti.
L'altro giorno mi è capitato di vedere su Youtube un’intervista fatta al nipote, il figlio della sorella, tale Andrea Barbacane.
Piena di aneddoti, di cose interessanti, alcune anche spiacevoli, sullo zio.
Oggi ne ho trovata un’altra, sempre su YouTube, direttamente a lui, l’ultima, del '79.
Se penso che in questa intervista aveva solo trentasei anni, che parla come se avesse avuto un lunghissimo passato alle spalle, che se ne è andato a soli cinquantacinque anni (tre più di me in questo momento), mi rendo conto che la sua vita è stata davvero estremamente intensa e che in fondo era quello che voleva, almeno musicalmente, sempre stando all’intervista. Quasi come sapesse che sarebbe finito tutto troppo presto.
Al di la di quello che si legge e si ascolta in giro, ma anche basandomi su quello, mi sono fatto l’idea di quello che era soprattutto Battisti, a parte un grande compositore di musica.
Era una persona estremamente vogliosa di trovare un senso alla sua vita.
Il suo Dio non era quello ortodosso, delle religioni, ma ne aveva uno, perché tutti ne abbiamo uno.
Dopo il grande successo (i suoi album e singoli concorrevano sempre fra di loro per i primi posti nelle classifiche) aveva voluto cercare di stanarlo, con scelte illogiche e inopportune (vedi pubblicazione del suo album americano), per capire quanto questo Dio fosse davvero dalla sua parte.
Sentiva l’amore di Dio ma voleva la prova definitiva.
Chiamatelo pure delirio di onnipotenza.
E così si giustificano i dischi bianchi in cui per sua stessa ammissione l’esperimento ardito (preconizzato nell’ultima intervista) consisteva nel mettere insieme melodie e ritmiche ossessive facendo in modo che le prime continuassero a trionfare.
Lucio Battisti, già al tempo dell’ultima intervista, sapeva che non sarebbe vissuto per sempre, anzi.
E per questo, alla maniera di Borges, e del suo racconto “Borges e io”, aveva disconosciuto il personaggio pubblico Lucio Battisti.
Dopo di che l’uomo Battisti era rimasto solo con la sua musica.
Bianca e pronta a sfidare il giudizio di Dio.
Che forse non ha fatto in tempo a dimostrargli quanto bene gli volesse davvero.