Quello di cui è difficile parlare (tranne che qui)
Parte prima, io sono come gli altri.
Esiste un momento, un giorno, fondamentale nella vita di ognuno, che tutti tendiamo a dimenticare, ma le cui onde nella nostra vita lasciano un segno indelebile, da allora in poi.
Da allora in poi le cose cambiano, c’è un prima e c’è un dopo.
Il giorno in cui prendiamo coscienza, insieme, di due fatti fondamentali.
La distanza temporale fra le due prese di coscienza può essere più o meno vasta, di solito sono estremamente ravvicinate tanto da creare il vero Big Bang della nostra vita come essere umani.
L’ordine temporale delle prese di coscienza può variare, non sono nemmeno io sicuro di quale sia stato per me, ma ne assumerò uno che ritengo assolutamente il più verosimile.
Per cui della prima presa di coscienza, nella mia vita, parlerò subito.
Anzi, parlerò (usando le parole già usate su questo sito tempo fa) di quella di mia figlia, penso che per me possa essere stato lo stesso, del resto sono suo padre.
Anni fa, quando mia figlia era molto piccola le chiesi (è una storia vera):
"Tesoro, la vedi la luna? Di chi è la luna?"
"Mia" mi rispose veloce.
Qualche mese dopo le feci la stessa domanda.
"Del cielo" mi rispose.
Un anno dopo le feci di nuovo la stessa domanda.
"Di tutti" mi rispose.
Ecco, in quel preciso istante sono sicuro che mia figlia abbia capito (si sia convinta) di appartenere alla categoria di quelli strani esseri a due braccia e due gambe che popolano la terra.
Di non essere diversa da loro, probabilmente per non sentirsi esclusa dai giochi con i compagni di asilo.
Parte seconda, quando gli altri ci lasciano.
Quando ero molto piccolo, per molti anni a seguire, per tutta la mia prima infanzia, ho dormito nella stessa stanza con la mia nonna materna, a cui volevo molto bene, ricambiato in misura ancora maggiore.
Come molti della sua generazione era estremamente cattolica.
Ogni sera prima di dormire si recitavano con lei le preghiere, lo stesso la mattina al risveglio.
Come molti della sua generazione aveva un culto particolari per i morti.
Avevamo una foto del mio nonno materno, morto negli anni 50, sul comò, che ci guardava ogni sera prima di addormentarci.
Scavando nella memoria, sarà stato quello il mio primo contatto, o almeno quello definitivo, con l’esistenza della morte degli altri?
La presa di coscienza che questi strani esseri a due braccia e due gambe che popolano la terra hanno il difetto ogni tanto di andarsene via chissà dove, senza dare più notizie?
La nascita, di fronte alla certezza di mia nonna dell’esistenza di un paradiso che avrebbe premiato i buoni facendoli vivere per sempre, alla fine dei tempi, di nuovo tutto insieme, del dubbio che non ci sia niente da aspettare?
Che il tempo davanti per potersi incontrare di nuovo potrebbe essere infinito?
Succederà anche a me
Il giorno in cui ho capito di dover un giorno morire non lo ricordo.
Sicuramente so che quel giorno ho capito che avrei fatto il medico (come voleva mia nonna) con l’hobby della pittura.
Il medico per curare le malattie che fanno morire le altre persone, inclusa un giorno mia nonna (di una brutta malattia), il pittore per fare tanti quadri.
Alla fine medico non sono più diventato (scusa nonna), pittore ogni tanto, ma più che altro scrivo, tanto, e suono, non sempre cose allegre.
Ne “La Collina dei Conigli” di Richard Adams, i conigli in fuga dalla distrutta conigliera di Sandleford, capitano un giorno nella conigliera di Primula.
Lì i conigli vivono apparentemente sereni, il cibo è abbondante e in apparenza non vi sono predatori.
L’unica cosa particolare è la strana presenza di teschi sparsi qui e là nella conigliera, come sacre reliquie, e un coniglio poeta capace di scrivere bellissimi versi di una profonda malinconia che manda l’intera conigliera in uno stato di struggimento totale quando li recita.
Presto Quintilio e gli altri scoprono la verità, che i dintorni sono pieni di trappole piazzate da un agricoltore, che attrae i conigli nutrendoli con cibo abbondante per attirarli e catturarli.
Che i conigli hanno imparato ad accettare il loro destino e che quei meravigliosi versi sono il modo in cui esprimono la loro rassegnazione a questo stato di cose.
Ribelli alla presenza della morte, alla accettazione del loro eventuale destino, Quintilio e gli altri fuggono via.
Finale
Di fronte all’infinito ogni cosa vale zero.
Anche la grandezza dell’universo, confrontata all’infinito, vale come il nulla.
Se parliamo di Spazio.
Se parliamo di Tempo, lo stesso discorso vale per l’Eterno.
E’ un fatto matematico, un numero finito, per quanto grande possa essere, diviso per infinito vale zero.
Così, un tempo finito, per quanto grande possa essere, diviso per un tempo infinito vale zero.
E’ per questo che di fronte alla morte di qualcuno che amiamo proviamo quel senso straziante di angoscia che ci sovrasta e che non ci vuole lasciare.
L’idea di non vedersi mai più.
Mai più, di fronte all’eternità futura.
Chiunque l’abbia provata sa di cosa parlo.
Praticamente è come se non fossimo mai esistiti, come se la nostra vita scomparisse al confronto.
Cinquanta (anni) diviso infinito = zero.
Ci voltiamo indietro e scopriamo che non siamo nulla.
Dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta, o ottanta anni passati: nulla.
Quel senso di irrealtà che ci strugge e distrugge.
La nostra, la mia, di morte, però, è un’altra cosa.
Vero nonna?