Clizia e Chiara

Queste sono le prime due pagine di un giallo che ho scritto in forma di sceneggiatura.

Buio. Non sapevo mai se era giorno, se calava la sera oppure se era notte, ero sempre disteso sul letto e non avevo nessuna cognizione del tempo. Un materasso, qualche lenzuolo, una sigaretta tra le dita e la voce della radio era tutto quello che avevo. Nient’altro. Ma bastava perché avevo un bellissimo pensiero che m’accompagnava costantemente: il mio amore. Si chiamava Clizia, abitava nella casa di fronte e da quasi un mese l'osservavo da dietro le tende. Anche se Clizia era un nome di fantasia, era diventata il mio angelo, l'emblema della sensualità e della purezza insieme, il pensiero dove trovavo rifugio quando la solitudine era lì lì per prendere il sopravvento. Poi, un giorno, mentre ascoltavo un radiodramma, smisi di immaginare: «Triplice omicidio: sia Veronica che Mary erano state strangolate, il coinquilino ucciso con un rompighiaccio. Ronnie Gedeon era...» Capii che Clizia stava aprendo la porta di casa, scattai in piedi e raggiunsi la finestra. Stava in cortile. La vidi raccogliere qualcosa tra i sassolini, inaspettatamente guardò verso la mia finestra, non mi scostai, sorrisi e feci un altro tiro di sigaretta. Lei ricambiò il sorriso e sparì nel suo giardino abitato da piante che parevano dipinte, Clizia, sono sicuro, ne percepiva il respiro, udiva i loro silenzi. Poteva stare ore nel suo terreno cercando qualche animaletto nell'erba, ed io, ero sempre davanti alla finestra ad osservarla e non avevo bisogno d'altro, a parte la sigaretta tra le dita.

Dopo il sorriso che mi aveva regalato, le giornate passavano in fretta, era un vivere pervaso da sentimenti, non un mero trastullarsi con fantasticherie. Pensavo a storie romantiche e la radio era sempre accesa: «La polizia aveva trovato i diari di Veronica: parlava di qualcuno indicato solo con la b, dovevano capire chi fosse b...» Mi addormentai. Fu lo squillo del telefono a svegliarmi. Era lei. Parlammo per ore, disse che stava aspettando l’amore, quello vero, nel frattempo, l’unica cosa che le dava gioia era annusare fiori e camminare tra gli alberi. Mi raccontò della sua vita avventurosa. Di quando conobbe la donna chiamata "macchina per il latte” una signorina che era ingrassata talmente tanto da tramutarsi in una mucca, di un posto sperduto in Colombia, dove alcuni pescatori tirando su le reti, tra sardine e sgombri pescarono anche un leone.

Erano favole, lo sapevo, ma sapevo anche che un animo poetico come il suo, non inganna, reinventa la realtà, le dà colore. Clizia aveva vissuto tutto il vivibile, era l’incarnazione della donna che avevo sempre desiderato, bella e con un immaginazione libera da costrizioni. Invece io, povero mortale, le raccontai qualche frottola, le dissi che avevo da parte un sacco di soldi, 70.000 per la precisione. Sarebbero bastati per fare un lungo viaggio, noi due da soli. Ci saremmo imbarcati e ci saremmo baciati e poi baciati ancora e tutto sarebbe stato bello, molto bello.

All'ora stabilita nel posto stabilito, Clizia arrivò puntualmente. Ero talmente agitato che mi chiedevo se quello che stavo vivendo era vero o un bel sogno. Stava davanti a me, immobile, sicura di sé. Chiusi gli occhi, li riaprii, era ancora lì. Imbracciava una Browning calibro 270 win, la teneva puntata verso il mio cuore. S'era fasciata il volto con uno Hijab azzurro, gli occhi erano privi d'emozione, la mente impenetrabile, l’anima inaccessibile. Sorrideva beffardamente, sembrava assaporare la mia paura, disse: «al mondo non c'è sognatore più sognatore di te, lo so che soffri e che sei infelice, lo vedo dal tuo sguardo, consumi la vita vagando di fantasia in fantasia, adesso sei stanco di fuggire. Lo so. Ho portato qualcosa che ti solleverà da ogni angoscia, ti farò conoscere un bellissimo paese, si chiama: "l'altro mondo", lì non ci sono ingiustizie, malattie e preoccupazioni. Adesso ci andrai.» Non avrei dovuto dirle dei 70.000, mi piantò in grembo un pallettone 000 buck, da 9 millimetri e non appena iniziai a respirare a fatica, scoprii che non ero angosciato, ma curioso. Uscivo dal mondo dei vivi, sapendo che di là non c’è niente, ma la curiosità era ancora presente. Una fucilata in pancia, un misero incidente, mi aveva svegliato il desiderio di vedere in quale diversità andavo a finire. Non durò a lungo. Subito compresi che i sogni non sono la vita e il momento in cui la realtà riemerge crudelmente, arriva puntuale. Mi venne da piangere.

«Oh, bel piccolo viso a forma di ciliegina che m’appari stretto nello Hijab, sembri una maschera di carnevale, che belle gote bianche e lisce che hai, che incantevoli labbra color violetto. Sei bella come una bambola e uccidere ti viene naturale, ma, per me, anche se mi stai ammazzando continui a essere portatrice di felicità». Pensai mentre stavo morendo. Non volevo provare né rancore né tristezza. Mi trascinavo in avanti, tenevo una mano sulla ferita e dicevo a me stesso: «Anche se lo spettacolo è finito la recita continua, non è bello andarsene odiando, pensa al suo sorriso, al suo profumo, cerca di ricordare la sua voce, amala anche adesso.»

Buio. La mano sinistra cercò la radio, trovò l’interruttore e spense. Fine del radio dramma e del mio sogno ad occhi aperti. Non stavo morendo e non c'erano viaggi per mare, giardini delle meraviglie, usignoli o fiori, anche Clizia, il mio castello in aria, era svanito. Stavo sul letto e sentivo i primi sintomi di astinenza: ero un drogato.

Accanto a me c'era Chiara una ragazza che avevo conosciuto pochi mesi prima ad un party di sbandati. Le carezzavo la schiena, lei mi stava vicino rannicchiata sul letto, dormiva. Stavamo insieme, amandoci tiepidamente, senza slancio e complicità, più semplicemente ci sembravamo giusti l’uno per l’altro, stavamo insieme perché tutti lo fanno. Eravamo giovani e non avevamo voglia di fare niente, solo qualche striscia di coca tutti i giorni, molte strisce di coca. La mano cercò il registratore. Accese. Ascoltammo «Where is my mind» dei Pixies. Le accarezzavo il bel culo ed avrei potuto continuare per quanto lo desideravo, perché volendo, avremmo anche potuto spassarcela con la cocaina, invece stavo lì a giocare coi pensieri.

Era venuta l’ora di trovare la roba. Mi alzai e cercai l’interruttore della luce. Accesi e guardai attorno: il pavimento era sporco e appiccicaticcio, il divano aveva la fodera strappata e si vedeva l’imbottitura, attaccato a un chiodo, sul muro, c’era un asciugamano intoccabile, nel lavandino, alloggiavano da giorni piatti lerci. Non era un bel mondo ma era il mio mondo ed era tutto triste, molto triste. Non c’era nessuna poesia in quella stanza e nemmeno nella mia vita, però c’era Chiara e il suo bel culo, un fondo schiena che era come una preghiera, riempiva ogni mancanza, occupava tutti gli spazi.

Era sabato e dovevamo darci da fare per passare il week-end, gran cosa un week-end organizzato con cocaina e qualsiasi altra cosa che ti butta di fuori. «Vado» dissi. Chiara si era svegliata, mi trattenne per un braccio, pronunciò mestamente: «Momi, la roba ci ammazza, invece, dovremmo riuscire a scordare chi siamo e perché siamo così. E non per un attimo. Questa realtà è tanto dura, ci confonde, alla fine, non conosceremo più il cammino, Momi, ci perderemo.» Non feci caso alle parole, il cervello era preso da un solo pensiero: «devo trovare la roba». Era tutto triste, molto triste.

Poi Chiara rimane sola in casa, legge la settimana enigmistica, riceve una visita inaspettata...


Carico i commenti... con calma