Passeggiata tra gocce di pioggia colorata e desiderio di lacrime. [Parte prima]
Cari miei, era il ventisei luglio dell'ottantadue e la spiaggia di tirrenia stava per diventare un luogo inspiegabile, oscillando tutto il giorno tra realtà, magia ed immaginazione. La mia attuale dimora è priva di contorni, qui sono anni che la morte mi osserva con calma, eppure, paradossalmente, ho imparato a trovare in questo spazio indefinito una sorta di piacere, una bellezza che certi momenti mi affascina, a volte mi sembra incantevole. Accade quando aggiungo invenzioni romantiche ai miei ricordi tristi. Poi, quando le racconto, mi perdo in quelle storie, mi commuovo, gioisco, provo meraviglia, sento brividi, percepisco mille sensazioni. Vivo di questo, di passioni immaginate che mi regalano momenti di felicità. Reinventare il mondo, trasformare fantasie in emozioni, mi serve per non morire del tutto, per continuare, in qualche modo, ad esserci. Se racconto di una passeggiata sulla spiaggia, la faccio diventare un viaggio carico di esperienze emotive, se penso ad un temporale, l'immagino come l'opera d'un pittore. Vengo al racconto. La spiaggia era battuta da un temporale e...
...dopo la pioggia la spiaggia era come una cartolina in bianco e nero. Spessi strati di nubi tingevano il paesaggio di tonalità cupe. Alcuni raggi di luce si erano fatti strada attraverso i nembi, rivelando la bellezza dell'eterno spumeggiare delle onde, definendo i bordi della Gorgona. Tutto era ben delineato, ogni dettaglio emergeva con chiarezza. Vicino alla battigia un vecchio fissava il mare, ma non godeva della vista, piangeva. La testa altrove, sentiva dentro una disperazione che doveva trasformare in lacrime. Una ragazza seduta a gambe incrociate, si laccava le unghie. Quando finì la mano destra, rimise il tappo al flacone di lacca e per alcuni secondi la agitò avanti e indietro. E poi c'era il mare, limpido, cristallino, mi piace immaginarlo così, pulito, con centinaia di bagnanti che galleggiavano abbandonati al lento ritmo delle onde. In un attimo la spiaggia si animò e prese colore. Se guardate bene, vedete Isabella che gioca con un grosso cane nero, poco distante ci sono io, sto in mezzo all'acqua con una bottiglia di sambuca tra le mani, non bado alle nuvole, non bado alle onde, ho le labbra incollate alla bottiglia nascosta in un sacchetto di plastica. Finii lo schifoso contenuto dolciastro in un fiato. Era disgustosa. Pisciai nel mare e lasciai bottiglia e busta a galleggiare sull'acqua. A poco a poco le percezioni cambiarono, il mondo e le persone mutarono di aspetto e significato, era il segno che stavo aspettando, voleva dire che iniziavo a non capire più un cazzo...
Per diversi minuti riprese a piovere forte e su quella miracolosa cartolina rimasi con Isabella, il cane e una signora che passeggiava lungo la riva. Una bella signora con la pelle bianca e liscia. Uscii dall'acqua e mi unii a Isabella che stava giocando col cane. Dissi «Ci vieni con me a Tangeri?» Isabella scosse la testa: «A Tangeri? Perché Tangeri? Tangeri non va bene, non volo con l'aereoplano, soffro di cuore.» Confrontai mentalmente i fianchi e le gambe della signora con quelle di Isabella, continuai: «Chi soffre di cuore non può volare con l'aereo?» Sorrise: «Che guardi?» «Niente, cercavo di vedere se da qualche parte c'è un bar... beh, diremo al pilota di volare basso...» Conclusi sorridendo e lasciando la frase sospesa. «Ma sei spiritoso!» Ribatté. Isabella mia. Isabellona mia, Isabella che volevi essere la mia, dolce Isabella che tenevi sempre il cuore nel luogo sbagliato. Gli occhi corsero alle belle gambe e al culo della signora, muoveva i fianchi come non avevo mai visto fare a nessuna.
Era una giornata magica. La pioggia aveva smesso di cadere. C'era il sole. La spiaggia si animava e si svuotava. Era in bianco e nero, subito dopo prendeva colore. Era come i miei pensieri, i miei stati d'animo e tutto ciò che attraversava la mia vita, ora bianco, ora grigio, ora luminoso, ora senza speranza. Quadri mutevoli che mi disegnavano alla perfezione. Nel vano scorrere dei giorni, mi perdevo negli imprevisti del destino e ogni evento mi attraversava lasciando emozioni incerte. Con occhi opachi scrutavo il mondo come se non ci fosse niente che avesse interesse. Sentivo il richiamo dell'amore, ma restavo inerte, incapace di procedere, fermo sulla soglia, sospeso tra l'attesa e l'oblio. Spettatore passivo di me stesso, vagavo smarrito tra le mie fantasie, la voglia di vivere, l'indifferenza e il timore d'essere escluso. Per non farla scegliere agli altri, scelsi l'esclusione.
La spiaggia era di nuovo popolata da migliaia di persone e, immersa tra la gente, Isabella carezzava il cane. La signora dalla pelle bianca era tornata sui suoi passi e s'era seduta sul gavone d'un pattino. Trasse dalla borsa un arancia avvolta nella stagnola, accavallò le gambe ed iniziò a sbucciare il frutto. Cercavo di costringermi a non guardarla, ma non ci riuscivo. La fissavo. L'immaginavo in intimo nero. Lentamente le tolsi le calze, il reggiseno, infine, finalmente, la smutandai. Che bello, mi suonavano i campanellini in testa. La signora mi notò, ripose l'arancia nella stagnola e scese dal pattino allontanandosi, incrociò Isabella che stava venendo da me: «Che razza di stronzo!» Dissi a me stesso. Prima che Isa mi raggiungesse, corsi di nuovo in acqua. Quando riaffiorai, salutai con la mano ed esclamai: «Vieni è calda!» allo stesso tempo pensavo: «Che parlo a fare, devo trovare due o tre birre». Uscii dall'acqua prima che lei potesse considerare una scelta, stava in piedi vicino alla ragazza che si laccava le unghie. All'orizzonte si erano raggruppati nuvoloni scuri e lungo la battigia, una densa nebbia. Si allargava e si rimescolava riempendo ogni spazio sulla costa. Indifferente a quello che accadeva, la ragazza si guardava il mignolo della mano sinistra. Sfilò un pennellino da una boccetta ed iniziò a passarlo sull'unghia.
Tornai ad osservare Isa. Cercavo di capire cosa stava pensando, ma era impenetrabile. Quando mi incamminai sul bagnasciuga, mi seguì. Mi vedeva barcollare mentre cercavo di tenere una linea dritta. Continuò a guardarmi anche quando crollai esausto vicino all'acqua. Perché!? Ma perché dovevo fare queste cose degradanti senza un minimo di vergogna, perché!? Era che, quando sentivo il bisogno di avere una vicinanza con Isabella, qualcosa mi guidava in circostanze dove suscitavo compassione. Isabella povera stella mia, poverina, non era abituata a queste situazioni e non sapeva cosa fare vedendomi strascicato sul bagnasciuga, quasi privo di conoscenza. S'inchinò e mi guardò con affetto. Teneramente mi passò più volte la mano nei capelli. In spiaggia ogni cosa stava al posto giusto. Le signore che leggevano il settimanale sotto l'ombrellone, l'ambulante col frigo portatile a tracolla, la ragazza che si smaltava le unghie, il vecchio piangente seduto a fissare il mare. In quel quadro non ci combinavo un cazzo. Che tristezza, tutto era triste, molto triste.
«Bella vero?» «Chi?» «Chi? Lo sai benissimo, quella signora, quella che passeggiava vicino a noi, quella che si è seduta sul pattino.» «Eh?» «Eh? Fai finta di non capire? Non sono scema... non c'è bisogno che rispondi... non stai bene, si vede, riprenditi và.» Isa socchiuse gli occhi. Immaginò che eravamo amanti insieme ad altre coppie innamorate. Che stavamo a flirtare in un bar di Marina di Pisa, che si sorseggiava una tazza di tè freddo, che si chiacchierava d'amore e di cose futili. Pensò che il discorso cadesse su quando, all'inizio dell'estate, seduti su una panchina di marmo, ci baciavamo. Che tra un bacio e l'altro, le avevo detto: «Sei il mio amore e lo sarai per sempre.» Per qualche istante fu presa da un infinita tristezza. Un grosso lacrimone le corse giù per una gota. Stava piovendo di nuovo ed erano gocce portate dalla provvidenza. Col viso coperto di pioggia e lucciconi che le tremolavano tra le palpebre, Isa si rasserenò e continuò a guardarmi amabilmente. Il suo sguardo mi avvolgeva come un caldo abbraccio. La sfiorai, lei si strinse a me. Rimanemmo così a lungo. Senza parlare. Mi sentii sollevato ma la tristezza non se ne andava.
Avevo un gran bisogno di riposare, volevo dormire stretto a lei. Non dovevo cercare lontano. Era lì. Fragile e incompiuta. E non cercavo di figurarmi che eravamo fatti l'uno per l'altro. Con lei non volevo qualcosa di speciale, ci stavo bene e questo era abbastanza. Era il mio riparo e, per come l'intendo io, amore è essere rifugio per una persona che desideri, e in lei trovarlo. Mi sembra abbastanza. Ero incompiuto anch'io. Le mie cose dell'amore non funzionavano e non funzionava neanche il resto. Non funzionava niente. Mi consumavo in una ossessiva ricerca di appagamento sessuale, era inevitabile, direi. Non conoscevo altro. Con Isabella sarebbe stato diverso. Forse. Però non mi suscitava pensieri erotici, niente da quel punto di vista. Non pensavo nemmeno di scoparla, m'ero fatto un paio di sciagattate tra i venti e i ventitré, sempre ubriaco e pompando col solo scopo di venire. Soltanto per dimostrare a me e agli altri che lo sapevo fare. Ma col tempo, diventava più difficile. Quando lo facevo, lo facevo così, senza coinvolgimento. Cercavo anche di appassionarmi a sto cazzo di sù e giù, niente da fare, mi passavano per la testa pensieri d'ogni tipo, allora facevo finta che mi piacesse. E quando si finiva, ci si abbracciava. Due sciagattati stavano abbracciati sul letto senza un perché.
Meglio una sega. Se mi concentravo su una fantasia erotica funzionava alla grande. Ma le fantasie non sono amore. Quello mancava sempre. Lo volevo da Isabella. Assolutamente. L'avrei voluta vicino a me ogni istante, ma per passarci un pomeriggio insieme e non andare in crisi, dovevo sbronzarmi. Era assurdo, lo so, ma che vuoi farci, ero così. Passavo le giornate con una donna che non potevo scopare perché l'amavo. L'amavo. Mah, non lo so, a parte l'amore immaginato, oggi mi è precluso tutto. A dir la verità anche allora, anche allora il pensiero di stare con una donna senza aver bevuto, mi faceva venire un ansia terribile. Ma ogni tanto ci provavo. Quando non andava, mi consolavo con la bottiglia, non era un gran rimedio, ma placava il dolore, poteva bastare. Gli stati d'animo belli me li dava Isabella, con lei vicino mi sentivo appagato. Con tutto ciò, le mie fantasie erano per donne che non conoscevo, donne che mi interessavano solo per avere orgasmi. Donne immaginate che erano esattamente come piaceva a me. Con Isabella non poteva essere esattamente come piaceva a me. Non potevo metterle parole in bocca e farle provare quello che desideravo io. Questa era la mia vita, tenere fantasie romantiche, alcool e seghe. Non sapevo cosa fosse vivere da "normali," e, per loro, i "normali," ero un demente. Sicuro. Però, se hai il superalcolico a portata di mano, te ne freghi di critiche e problemi, non ti arriva nulla. Tra bevute e ogni altro tipo di sballo, vivi a testa di cazzo, cerchi altre teste di cazzo, passi il tempo a far niente, sperare niente e dire cazzate. Poi ti addormenti. E quando sei di nuovo sveglio, la prossima bottiglia di robaccia schifosa sta già aspettando. Lo so che non era una buona soluzione. Ma anche quella mia vita di merda era una vita, anche buttarsi di fuori fino a non capire più un cazzo era pur sempre un rimedio.
La pioggia cadde molte volte prima che calasse l'oscurità. Io giacevo a terra, Isa si adagiò accanto a me. Silenzio dentro noi, silenzio fuori, per ascoltare la voce della natura. Le gocce cadevano leggere, picchiettando ovunque posandosi sulla sabbia dorata, su pacchetti di sigarette gettati via, su flaconi di crema solare dimenticati, sulle carcasse di creature decomposte, su bottiglie di plastica. Cadevano su tutto ciò che era diventato inutile, su me su Isa, sulla nostra esistenza. S'era formato un rivolo d'acqua, scivolava tra i viottoli silenziosi, sprizzando, ribollendo, borbottando, bagnando ogni cosa. Portava con sé gocce avvelenate che infradiciavano e contaminavano i fiori, obbligati a piegare il capo e appassire. Che tristezza, ma non c'è dolore che possa offuscare la poesia che abbiamo in noi, la troveremo sempre, oltre che nel canto della pioggia, pure in una pineta dove non ci sono più gli odori, i colori, le luci di sempre, solo sporcizia. Dove sono quei bei temporali che inzuppavano i boschi e dopo aver bagnato rami e foglie, tutto sgocciolava e ogni cosa era in festa?
Parlo di un tempo lontano. Guardavamo la pioggia, leggera e multicolore, danzare su tutto ciò che non serviva più. Sul immondizia. Il suo puzzo si mischiava con quello del temporale estivo e vi si perdeva. In quella natura trasformata, quello che era scarto aveva invaso il pianeta riducendo in agonia ciò che vive. Dove giacevano i sacchetti di plastica corrosi, in quanto l’umanità aveva rigettato, si rivelava il nostro lato oscuro. Sotto il peso del consumo sfrenato il mondo era mutato e il pattume era divenuto il nostro triste accompagnamento. I fanciulli nascondevano gli occhi dietro una barriera di dita, cercando di evitare lo sguardo su quel cielo malato, ma i loro occhi erano tristi e lacrime li inumidivano. Già i veleni avvolgevano il globo come un amante appassionato e in questo mortale abbraccio, i cieli avrebbero presto esalato l'ultimo respiro. Ma volteremo le spalle anche a questa evidenza, infine, vagheremo senza meta, senza scopo, prigionieri dentro un vortice di autoinganno.
Immerso in queste malinconiche riflessioni, volto proteso al cielo, godevo a lasciarmi penetrare dalla pioggia e dal profumo del mare. Ascoltavo in silenzio il ticchettio costante delle gocce. La pioggia scendeva leggera dando vita ad una sinfonia visiva, pareva d'ascoltare: One of These Days dei Pink Floyd. Le piccole perle d'acqua cadevano senza sosta, pennellando colore su tutto. S'era formato un nuovo paesaggio, mi sembrava d'essere intrappolato in un dipinto di Banksy. La spiaggia bruciava sotto il sole rovente e il fetore avvolgeva la terra in un manto umido di tristezza. Pensavo che la natura, offesa da tanta sporcizia, prendesse le distanze da ciò che dissonava dalla bellezza che aveva sempre creato. Ma, ora lo so, la natura non segue né le leggi degli uomini né dettami poetici, non sa cos'è il bello e non partecipa in alcun modo alle cose cui noi diamo importanza. E noi, Isa ed io, abbagliati dal sole e dalla colorata apparenza di quel mondo, continuavamo a godere, inzuppati d'acqua e coi nasi all'insù.
Il vecchio piangente stava seduto e fissava le onde. Per un po' lo guardai cercando di capire cosa lo affliggesse. Stava lì da chissà quanto tempo...
[CONTINUA, DOVE? NELLA SECONDA PARTE]