Passeggiata tra gocce di pioggia colorata e desiderio di lacrime [Parte seconda]
... «Tu lo vedi quel vecchio?» Isa guardò dove indicavo e replicò: «Non c'è niente li, Vale, niente.» Pensai: «Forse sono io il vecchio. Piango perché non so prendere iniziative per cambiare il mio destino»...
Ombre e luci si davano il cambio assumendo il colore delle nostre sofferenze e delle nostre gioie. Intanto, la pioggia multicolore continuava a scendere. In quelle gocce colorate c'erano le nostre emozioni. Emozioni in forma liquida. Il vento ce le disegnava addosso in mille sfumature di colori e di toni. Stavamo stretti stretti e molti sentimenti si alternavano: entusiasmo, noia, euforia, tenerezza. La pioggerellina li dipingeva sulla carne con magiche pennellate di rosso, lillà, verde, blu. Isa sembrava un dipinto surreale. La ragazza seduta a gambe incrociate non badava alla cascata di colore che scendeva dal cielo e cambiava la natura. Mi venne da pensare: «Quella ragazza non vede e non vuole.» In quel contesto così particolare, colui che l'aveva creato pensò ad una piccola magia anche per lei. Come d'incanto le apparve tra le mani un ombrellino, un Walk'n'Carden del 1800. Subito l'aprì per ripararsi dalla pioggia. Prese un rossetto dalla borsetta e, stando attenta a fare un contorno senza sbavature, iniziò a passarlo sulle labbra. Quando finì, appoggiò il rossetto sul beauty case e ai miei occhi divenne una rosa. Era una bella ragazzina e aveva il dono di contagiarmi d'amore, quale non so, amori ne avevo tanti, romantici, passionali, contemplativi. Lo sguardo tornò su Isa. Era tutta bagnata. Sembrava un'arlecchina attraversata da flussi elettrici. Le gocce le si erano combinate sul viso e sul corpo in una complessa rete di linee, scarabocchi e macchie, era come se l'avesse pitturata un artista. Provate ad immaginarla con gli occhi gialli, il viso dipinto e i capelli arruffati bagnati di pioggia colorata.
Non sapevo se quello che stavamo vivendo fosse vero o la creazione di una mente, la mia, impazzita per i troppi eccessi. Non sapevo se pioveva o se era bel tempo. Capii soltanto che mi piovevano addosso tutte le emozioni che si possono provare. Mi avvolgevano. Che bello. Mi piaceva essere attraversato da stati d'animo multicolore. Mi persi nell'illusione di provare momenti di felicità. Io, che mai li avevo provati. Mai. Se affoghi tutto nell'alcool, inevitabilmente, quello che più desideri e quello di cui l'alcool ti ha privato. Bevevo perché credevo che aiutasse a essere simpatico. Facevo le battute del cazzo e raccontavo barzellette del cazzo. Quante cose del cazzo che facevo. Una dietro l'altra. Trascinavo le giornate facendo il buffone e nessuno pensava fossi simpatico. Un imbecille, probabilmente. Ma mi assolvo, non ci sono colpe negli errori dei disperati. Cosa ci voleva per capire che il mondo sta in piedi solo se riusciamo ad esprimere amore? Non ci riusciamo. Divento triste e mi cade una lacrima. Quanto mi piacerebbe farla arrivare al prossimo. Ma qui non c'è nessuno! Non potrò mai. Sono destinato a stare in eterno senza gioia. Condannato ad invecchiare inventando personaggi fantasiosi da ricamare nelle mie infelici storie vere. Storie che da anni racconto ad un pubblico che non può ascoltarmi perché non c'è. Però, ora conosco i sentimenti. So perché originano, riesco a provarli e capisco chi li ha. Ci sono anche quelli che vivono senza averli e chi li nasconde perché non sa gestirli. Io, a quel tempo. Amarezze e gioie erano uguali. Affogavano nel liquore bevuto poco prima e andavano via senza lasciare traccia. Poco dopo, sparivano anche dalla memoria. Da un po' di tempo ho anche imparato a piangere. Mi capita spesso. Poi rifletto. Su tutto, più che altro sui casi della mia vita, cerco di capire quello che al tempo mi ero precluso e come mai. Cosa sarebbe potuto essere se. E sto piangendo.
Isa si sdraiò a pancia in giù, disse: «Guarda, sono tutta macchiata, quella strana pioggia...» «Non sei macchiata sei colorata e quella pioggia ti ha dipinto addosso l'abito più bello, un abito che cambia ogni istante e ti fa più bella ancora.» Biascicai. Isa spalancò i suoi bei occhi rossi e sorrise. Continuai: «Se la bellezza è data dall'armonia e dal colore, sei la più bella di tutte.» Si girò da una parte, certi momenti non teneva lo sguardo e arrossiva. Mi stesi vicino e indicai la ragazza che sedeva a gambe incrociate. «La vedi?» dissi. «Carina» «È la ragazza che non vede e non vuole» «Perché dici così?» «Da quando siamo qui, non ha fatto altro che darsi il rossetto e laccarsi le unghie. Non ha mai gettato uno sguardo intorno per guardare quello che succede intorno.» Senza una ragione mi venne da canticchiare a bassa voce: «Su una spiaggia incantata c'è una ragazza molto carina e molto distante dalle cose del mondo. Ha labbra e unghie di un bel rosso vivo, siede sotto un ombrellino fuori moda e sembra uscita da un quadro impressionista». Vidi Isabella alzarsi e andare dalla ragazza. Il sole scendeva lentissimo verso il mare, quando Isa tornò quasi lo toccava. Isa disse: «Ohimè, madre e figlia trascorrono i giorni a dipingersi il volto. Vivono solitarie in una villa con prati verdi e tanti alberi, una prigione dovuta alle pazzie di cui è convinta la madre. Non hanno amici, né conoscenti, né parenti. Lei e sua madre, la primadonna». «La prima-donna». Ripeté una seconda volta, scandendo ironicamente le due parti della parola. «Ignorante si, tanto. Anche tanto presa da sé stessa da considerare soltanto i suoi bisogni. Quelli degli altri non sa cosa siano. Perché interessarsi dei problemi degli altri quando sono così importanti i propri? Talmente convinta del niente che sa, da apparire sincera, persino convincente. È prigioniera di orgoglio e di ignoranza, che limitano il suo sguardo sulla vita. Convinta che la bellezza sia sostanza e che per avere una vita perfetta, si debba vivere nella bellezza e senza sofferenza. Cerca la perfezione nell'apparenza, crede di sfuggire ad ogni affanno perché non sa che la sofferenza è parte dell'umana essenza. Non sa che la bellezza del mondo è polifonica, composta di piaceri e di dolori, che ogni esperienza è unica e che la lacrima è di molti colori. Ma resterà sempre prigioniera dell'illusione di perfezione che la guida, ignorando che nella vita, la bellezza e la sofferenza si uniscono e si confondono in perfetta armonia.
Ha trascinato nello squilibrio anche la bambina, dirottando i suoi passi verso l'unico cammino possibile, quello segnato dalle sue impronte. Povera stella, è ignara del mondo che c'è fuori, il suo cuore è chiuso al mondo, bloccato è un cuore che non batte. Brucia la sua giovinezza e i suoi giorni, incapace di comprendere l'amore, la passione. Che tristezza bruciare la propria esistenza senza sapere che le sofferenze e la felicità camminano a braccetto. La sua vita scorre via, senza che possa comprenderne il valore, sentire il calore del sole sulla pelle, la freschezza dell'aria al mattino. Ha la mente chiusa dentro una scatola. Così come si dipinge il volto per evitare le difficoltà della vita, allo stesso modo apre l'ombrellino per ripararsi dalla pioggia, l'acqua fresca sul volto non le dà ristoro. Per lei non sarà facile liberarsi dall'illusione che la acceca, aprirsi al mondo con occhi nuovi e scoprire la bellezza della vita e viverla in pienezza. Dovrebbe andar via di casa e cercare qualcuno che non la faccia perdere in questa sua vita partita male. Qualcuno che non abbia dimenticato la sublime arte di vedere gli altri e amarli».
Prima notai la sua ombra, mi voltai e la vidi per intero. La ragazzina stava in piedi a un metro da me. La guardai bene, aveva gambe lunghe, affusolate, sinuose, i seni non rispecchiavano i suoi tredici anni e già catturavano sguardi, il viso era dipinto come da abitudine. Sembrava una seducente maschera del carnevale di Venezia. Bella, bellissima da guardare. C'era in lei anche qualcosa che non si poteva notare. Uno stato d'animo misto di ansia, paura e sofferenza la consumava e non l'abbandonava mai. Precisamente come in una maschera, nello sguardo non c'era espressione, non mostrava né felicità né sconforto. Non usciva nulla, tutto era controllato. Disse: «A tanta gente piace parlare, a me no, non sono una gran chiacchierona, le parole che penso non voglio che arrivino alle labbra. Potrei dire: Com'è simpatica signora, lo penso davvero, prima che alle parole presto attenzione al volto, i suoi muscoli facciali si modellano alla perfezione per formare il sorriso. Io non sorrido. Oppure potrei dire: com'è bello il mare, la pioggia e quei nuvoloni scuri che danzano sull'alto della volta celeste. Tutti direbbero che è vero, che son cose che muovono sentimenti. Ma io no, non lo dico, non posso. Guardo il mondo, ma non lo vivo come gli altri, vorrei riuscire ad appassionarmi alla lettura o all'ascolto della musica, ma non mi arriva nessuna emozione, nulla, per me l'arte non ha significato». Stese una mano ed agguantò qualche goccia di pioggia. Continuò: «C'è una moltitudine di persone non lontano da qui. Ridono, piangono, si innamorano, io non provo mai niente, non mi arrabbio, non provo disgusto, non mi stupisco... cosa sono? Niente. Nulla di più che risultato della ricerca della perfezione di una mamma sbagliata. E io sono da rifare. L'unica cosa che mi definisce è questo trucco perfetto. So bene che la bellezza è il tratto che mi distingue, ma un particolare così insignificante non può aprirmi le porte del paradiso. Accadrà quando sarò riconosciuta per le parole, per le azioni, non per il mio bel viso». Rivolse lo sguardo verso l'infinito, in cerca di una risposta, ma sapeva che la sua ricerca era senza fine. Stava per riprendere il discorso, invece tacque. Ebbi l'impressione che fosse presa da una rabbia incontenibile alla quale, ahimè, non sapeva dare sfogo. Sembrava pronta per la sua prima lacrima, ma non le uscì nulla: gli occhi, i suoi occhi, non conoscevano lacrime, mai erano riusciti a bagnarsi. Si chinò verso me e scrutò il palmo della mano, sperava di vedere qualche bel gocciolo colorato, ma non c'era niente, né gocciolo né colore, diversamente da noi mortali, non mostrò disappunto e mantenne la sua compostezza, nonostante il suo volto non rivelasse emozioni, i suoi occhi esprimevano grande dolcezza. Disse: «Sento tanta angoscia, l'esperienza del nulla, non ti puoi difendere dal nulla». Così dicendo, la ragazza si levò in piedi e si allontanò con passo leggero verso il mare. Si volse a guardarmi ancora una volta, mi commossi alla vista del suo volto tanto bello e colorato, quanto spento, senza espressione, pure il suo corpo sembrava privo di calore. La fanciulla senza nome mi appariva come una tragica statua scolpita nella pietra. L'osservai mestamente mentre tornava a sedersi al suo solito posto. Disse ancora: «Aprirò l'ombrello e guarderò il mare sotto il temporale, come se fossi una ragazza del 1800. Voglio immaginare d'essere come le signorine dipinte da Monet, col mio Walk'n'Carden che mi ripara dal sole e dalla pioggia. Al riparo dall'acqua che scende, aspetterò che la vita mi tocchi, in fin dei conti, sono pur sempre viva, ancora in cerca d'una via d'uscita».
Passarono le ore, svanì la sbornia e arrivò la sera. Isa ed io eravamo ancora vicini, sdraiati sulla sabbia. La pioggia s'era presa una tregua e l'acqua cromatica si amalgamò sopra la sabbia, formando un tappeto di tinte variopinte. Avvolti dal vento e immersi nel silenzio, ci guardavamo intorno e sapevamo che di cose più belle al mondo non ce n'erano. Le stelle erano basse sull'orizzonte e una luna molto luminosa stava sospesa sopra i nostri sguardi. Vedemmo arrivare una moltitudine di donne e bambini, sopratutto bambini, schiere di bambini. Si proteggevano la vista con occhiali che avevano le lenti rosse perché guardare tanti colori tutti insieme, fa male agli occhi. C'erano bambini di tutti i colori, dove aveva imperversato la pioggia verde erano verdi, dove era scesa quella gialla erano gialli, ce n'erano anche rossi e altri erano celesti. Fecero la gioia dell'ambulante quando si raggrupparono tutti intorno a lui. Erano trent'anni che l'uomo viveva faticosamente arrancando su e giù per quella spiaggia senza aver mai avuto il piacere di una bella sorpresa. Aprì il frigo portatile e iniziò a distribuire succosi gelati, caramelle viola, popcorn verdi, limonata azzurra, nutella gialla e, quando i bambini avevano ricevuto il loro dono, le mamme pagavano con monetine bianche. Ci unimmo a loro, conquistati dall'affascinante stravaganza di quella compagnia. Isabella teneva il cane nero stretto a sé, i bambini erano troppo piccini per sapere cos'è un cane, appena lo videro corsero a nascondersi dietro le mamme. Il vecchio piangente e la ragazza col parasole erano oramai parte del paesaggio, silenziosi e intoccabili, guardavano il mare, aspettando, chissà? Il bacio di chi li avrebbe potuti svegliare? Beh, non era facile, poteva farlo soltanto la donna più bella del mondo. In quello strabiliante contesto onirico, eravamo tutti tra il sogno e la realtà, tra la sabbia e il mare, tra la notte e il giorno, i nostri cuori battevano forte e ci sentivamo soddisfatti, ottimisti, speranzosi.
Ma un vento ostile, forse reale, forse interiore, continuava a spirare. Ci sentiamo sovraccarichi, era tempo di lasciare quello stato di cose. Le mamme e i bambini se ne andarono e in breve rientrai nel solito stato di torpore, di nuovo tutto era come prima. Mi avvicinai a Isa e la presi per mano, guardai la luna e il cielo stellato. Immaginavo che la vita fosse facile, che quella sera tutto era possibile. C'era un gran silenzio, non si udiva nemmeno lo sciacquio delle onde sulla battigia, vedevo il cielo cliché e sentivo la presenza di Isabella, vicino. Potevo dormire. Come il vecchio Santiago, desideravo sognare di stare in spiaggia e giocare coi leoni. Sognai. C'era il mare, la spiaggia, Isabella e un cane nero, ma i leoni no. Io stavo in mezzo all'acqua, reggendo una bottiglia di sambuca. Bevvi il ripugnante contenuto in un fiato, pisciai nell'acqua e lasciai la bottiglia a galleggiare sulle onde. Poco a poco cominciai a non capire più un cazzo. A quello aspiravo. Guardavo Isa giocherellare col cagnolino e mi sentivo innamorato più che mai. Nemmeno l'ombra dei leoni, ma sulla riva c'era un vecchio che piangeva e una signora che camminava coi piedi nell'acqua. Una bella signora dalla pelle liscia e bianca. Passò vicino al vecchio, gli lanciò uno sguardo amorevole e lo baciò. Ruppe l'incantesimo. Mano nella mano, si incamminarono verso un punto indefinito. Il vecchio camminava incerto sul manto di goccioline colorate, puntando un bastone davanti a sé. E mentre si allontanava sotto il peso delle sue sofferenze, appariva sempre più curvo, sempre più piccino, divenne un puntino, infine sparì. La signora proseguì a camminare da sola, quando passò vicino alla ragazzina le tese la mano. La giovane l'afferrò e insieme si avviarono verso il punto indefinito. Li vedevo allontanarsi piano piano e immaginavo che la ragazzina già piangesse incontenibili lacrime di gioia. Era il mio desiderio. Ma era presto. Ci voleva un adeguata educazione alle emozioni per provare commozione. Però la preoccupazione e la tristezza erano sparite. Amavo Isabella, si, ma, cercando di cogliere il suo sensualissimo ancheggiare, lo sguardo si posò di nuovo sulla signora dalla pelle bianca. Volevo arraparmi un po', avevo bisogno di rilassarmi dopo ore così intense. La signora era una macchiolina sotto l'orizzonte, tra non molto sarebbe scomparsa alla vista. Allora la pensai intensamente e, sono sicuro, riuscii a farla vivere da qualche parte nel mondo. Dove non so. Era la donna più bella del mondo, non un astrazione, un altro ologramma generato del mio delirio alcolico. La desideravo. Era in intimo nero, le tolsi le calze, il reggiseno, infine, finalmente, le mutandine nere. Ero tornato a pensare a cosce da baciare a buchi di culo da leccare, a donne da smutandare. La mano scivolò al solito posto e detti il lieto fine al sogno tenendomi compagnia da solo. Non so se era un lieto fine, prima o poi lo capirò.