Galeotta fu la raccolta e chi la pubblicò.

Succede che qualche settimana fa l’Acid Jazz pubblica questa raccolta che si chiama “5, 4, 3, 2, 1 … The Countdown Records Story”.

Per farla breve, la Countdown a metà anni ‘80 fu protagonista di un piccolo revival mod e beat e tra le sue fila passarono gruppi che, anche se non scrissero la storia ufficiale del rock’n’roll, però furono capaci di scavarsi una nicchia profonda nel cuoricino di tanti appassionati; i Prisoners di Graham Day sopra tutti quella nicchia la occupano ancora oggi saldamente, come una trincea di prima linea.

Ai tempi Graham Day faceva coppia con Fay Hallam, talentuosa hammondista che qualcuno ha definito “Brian Auger e Julie Driscoll in un corpo solo” e che ovviamente aveva la sua banda, i Makin’ Time.

Ecco, i Makin’ Time la raccolta dedicata ai gruppi di casa alla Countdown la aprono con una notevole resa di “Pump It Up” di Elvis Costello ma soprattutto furono artefici di due album uno più bello dell’altro, e a rendere ancora più prezioso l’esordio “Rhythm And Soul” ci stava pure quell’effetto sorpresa che per me conta sempre tanto, allora come ora.

Erano una miscela altamente infiammabile di soul con spasmi northern, rhythm’n’blues e beat, i Makin’ Time, e avevano un tiro micidiale che, letteralmente, ti sollevava di peso e ti faceva roteare senza posa in un ballo ininterrotto che spesso sfociava nel pogo e di quando in quando ti concedeva la requie di un guancia a guancia: oltremanica, mi pare dicano super groovy e super catchy.

Le prime cinque canzoni, da “Take What You Can Get” fino a “Did I Tell You”, da quel “WWWWWEEEELLLLL” urlato con quanto fiato hanno in gola quei tre ragazzetti e quella ragazzetta che ti aprono la porta del garage delle prove e avanti così per una quindicina di minuti, davvero non ti lasciano via di scampo e ti travolgono peggio di un Mike Tyson con la luna storta; “Honey” è una sontuosa e soffusa ballata soul che ti serve per rialzarti dal tappeto e riprendere fiato appena prima di quella mazzata che ti arriva in testa ai margini del garage che si chiama “I Gotta Move” e che ancora adesso, proprio come quarant’anni fa, la prima cosa che fa venire in mente è che se i Sonics fossero mai stati un gruppo mod, ecco avrebbero suonato esattamente così; “The Girl That Touched My Soul” è un’altra ballatona, pure più bella di “Honey”, e quei quattro te la offrono in segno di pace, quasi scusandosi di averti pestato troppo duro finora, ci tolgo il ritornello e ci sento addirittura i Died Pretty più rilassati ai tempi di “Free Dirt”; anche se poi, per capire che gran gruppo siano stati questi Makin’ Time, devo sempre arrivare alla fine, a quella “Stop Crying Inside” che in tantissimi, dall’alto dei Jam al basso dei Wham, avrebbero venduto l’anima e pure la mamma al diavolo per scriverla.

E invece a scriverla fu il bassista dei Makin’ Time, tale Martin Blunt, che qualche anno dopo guadagnò fama mondiale e pure un bel gruzzolo di sterline fondando i Charlatans e dando la stura a quella vicenda strampalata che ancora oggi qualcuno ricorda come Madchester.

Fama e gruzzolo strameritato ma, per come sono fatto, quei Makin’ Time sullo sfondo e in leggera penombra sono stata una storia molto più bella.

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