Il vecchio Nelson Mandela se n'è andato, suscitando enorme sensazione generale e cospicua gara fra i potenti di mezzo mondo nel presenziare in loco, proferire buonismo ad effetto,  prontamente rimpiangere un tizio al quale non avevano magari dedicato un'iniziativa o almeno due battute in pubblico, a favore di telecamere o taccuini, durante tutti quegli anni in cui era stato in galera.

Che pena... non azzardo esclamare altro, visto che sono informato solo superficialmente della storia di Nelson, delle sue virtù e dei suoi sbagli, della sua (evidente) forza d'animo e (meno chiara) effettiva efficacia delle oggi sbandieratissime conquiste che il suo attivismo da uomo libero, il suo esempio da prigioniero e alfine le sue cariche governative da riabilitato hanno portato al grande paese africano.

Scevro quindi di servo encomio e di codardo oltraggio, prendo in considerazione in suo onore la cosa più sudafricana che abiti la mia ciditeca, ossia un album del 1983 del gruppo capitanato dal tastierista nativo di Joannesburg Manfred Mann, un bianco (all'anagrafe fa Lubowitz) che negli anni sessanta preferì la vita dell'emigrante in Inghilterra, per via della profonda avversione all'odioso regime e relativa apartheid imperanti in casa sua (un po' quello che sta succedendo a molti giovanotti italiani di oggi, grazie al trattamento e alle prospettive che presidenti, segretari e leader politici vari stanno loro riservando in patria).

Siamo nel 1983 e quindi la musica è piena di suoni sintetici, di sequenze, di percussioni elettroniche. Mann del resto è un esecutore fra i migliori al sintetizzatore, specie per quanto riguarda gli assolo sul Minimoog (uno fra i primi sintetizzatori monofonici, completamente analogico, tuttora insuperato) avendoci messo su le mani sin dalla fine degli anni '60.

A braccetto con l'elettronica di tendenza del tempo vi sono poi gli strumenti rock tradizionali, imbracciati dal quartetto della Earth Band che affianca il leader, ma soprattutto un massiccio supporto di cori ed invocazioni in lingua bantu, i quali correlati a chitarre elettriche, batterie vere o elettroniche, organi e mellotron, al cantato in inglese a cura dell'ottimo vocalist della formazione Chris Thompson o del chitarrista Steve Waller, generano un guazzabuglio estremamente originale, reso poi definitivamente emozionante dai testi corrosivamente militanti contro razzismo e segregazione.

Andò così: il bassista del gruppo Matt Irving procurò di registrare, direttamente in Sudafrica, un bel po' di canti e di corali  tradizionali in lingua bantù, ed anche qualche percussione. Successivamente a Londra questo materiale venne esaminato, sezionato e adattato, anche integrato con registrazioni di cantori africani fatte direttamente in uno studio britannico. Intorno a questo collage etnico vennero infine costruite le progressioni armoniche, le sequenze elettroniche, i groove ritmici, le melodie a costituire l'album in questione.

Il bello è che tutto ciò, anche se fa suonare "Somewhere in Afrika" (notare la kappa politica...) decisamente diverso dagli altri lavori della Manfred Mann's Earth Band, non compromette minimamente due dei dettami classici della loro produzione artistica, ossia l'accessibilità delle musiche, decisamente pop-rock e per buona parte... ballabili (gulp!), nonché l'inclinazione a coverizzare opere altrui, possibilmente stravolgendole adeguatamente. Ecco così sfilare composizioni di Bob Marley, dei Police, di Al Stewart, di Anthony Moore, intercalate con i contributi autoctoni della band.

L'opera è da gustarsi tutta d'un fiato, doverosamente col libretto dei testi sottomano dato l'argomento socialmente rilevante. Inutile distinguere fra i titoli e la riuscita o meno delle varie composizioni... le canzoni sono separate dai regolari secondi di silenzio, ma a mio sentire questi quaranta e rotti minuti sono da vivere in forma di suite. Le ancestrali invocazioni in idioma sudafricano, miste alla sagomata dinamica dei dispositivi elettronici e al caldo contributo di chitarre e basso e batteria, formano un unicum di grande forza e profondità che, ad onta della notevole accessibilità melodica, riesce a trasportare l'ascoltatore verso livelli di fruizione, di coinvolgimento assai toccanti.

E' un grande disco in omaggio a un grande paese, fra i più miserabilmente governati dell'era moderna, a lungo vero residuo medievale, indegno di esistere e che polverizza(va) al suo cospetto le miserie europee ed occidentali in generale, nelle quali siamo abituati a sguazzare.

Massimo dei voti e del rispetto per l'uomo ed il musicista Manfred Mann.
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