Nati nel cretaceo del metal (quando Halford poteva ancora farsi il riporto), i Manilla Road pubblicano, anzitutto, due dischi direi più che apprezzabili (“Invasion” e “Metal”, rispettivamente dell’80 e dell’82) in cui il metal degli albori dei primi Priest, in un contesto ancora fortemente legato alle sonorità hard rock anni ’70, viene miscelato, da un lato, a sfumature epicheggianti e, dall’altro, a “sperimentazioni sonore” che possono vagamente ricordare la psichedelia del decennio precedente (niente di trascendentale, per carità! Solo quel poco che basta per lasciare perplesso il classico metalhead tutto ciccia e Manowar).

Sebbene lontani da quanto in futuro prodotto dalla band, questi primi vagiti metallici sono sufficienti, tuttavia, a far emergere alcuni dei tratti distintivi del terzetto che, in questa prima fase, a parte il guitar hero (ho letto pure di una sua militanza in gruppi jazz e country... però!), eccellente pianista, convintissimo biker, leader e primo compositore Mike Shelton, annoverava tra le proprie fila, il gigantesco Scott Park al basso e il buon Rick Fisher alla batteria. In particolare, oltre all’aspetto vocale diciamo “atipico” (su cui mi soffermerò maggiormente in seguito) e alla tendenza ad abbandonarsi ad atmosfere per così dire tra il fantasy e il sognante, ciò che più colpisce è sicuramente il ruolo della lead guitar: a parte l’originalità del riffing (che comunque raggiungerà i risultati migliori con i dischi successivi), è e sarà la massiccia componente assolistica a divenire un vero e proprio marchio di fabbrica della band.

La forma-canzone tipica del genere viene, in più occasioni, totalmente snaturata e l’assolo, da semplice orpello da sfoggiare tra un ritornello e la strofa successiva, diviene parte integrante della composizione e finisce, in molti casi, per rubare la scena al resto della canzone. Nonostante critica e pubblico siano pressoché concordi nell’ individuare in “The Deludge” (’86) l’apice compositivo della band, “Open the Gates” (‘85) rappresenta il disco della vera svolta. La prima novità riguarda la line up: Rick Fisher (che comunque collaborerà alla produzione del disco) cede il seggiolino di batteraio a Randy “The Thrasher” Foxe… e si sente. Il drumming diviene meno lineare, più presente e imprevedibile, perfetta trama per l’ordito chitarristico del sempre più leader Mark Shelton che ricama ritmiche talora complesse, ma sempre serrate ed efficacissime. Gli arrangiamenti si fanno più ricercati, anche le ultime incertezze che inficiavano il precedente e pur ottimo “Crystal Logic” (’83) lasciano il posto ad un estro creativo che sembra inesauribile per varietà e ricchezza di spunti, perizia tecnica mai fine a se stessa, cattiveria e melodia.

Ne viene fuori un epic metal decisamente heavy (o power), mai banale, sentitissimo, fatto di chiaroscuri e contrasti, in cui ad episodi certamente più classici e aggressivi (vedasi le iniziali “Metalstorm” e “Open the Gates”), si accompagnano altri più riflessivi (tra cui il vero capolavoro del disco, “The Ninth Wave”, in cui evidenti sono i richiami alle opere arthuriane di Lord Tennyson), dove le distorsioni passano in secondo piano e a risaltare sono la ricercatezza delle melodie e la bellezza delle linee vocali (gli arpeggi e le liriche di “Astronomica” - chiaramente ispirate all’omonimo “Poema sugli astri” di Manilio, farebbero venire i brividi anche a una cotoletta..). A tal proposito, Shelton si conferma eccezionale compositore, ma discutibile cantante. Personalmente apprezzo moltissimo le sue tonalità da mollette da bucato sul naso… ma capisco anche che le nuove generazioni, assuefatte alle voci spacca cristalleria dei bellocci con il balsamo nella tasca del chiodo che vanno di moda oggi, possano storcere i padiglioni di fronte alla voce potente, ma nasalissima, del barbuto biker (per chi non conoscesse la band, si pensi ad una specie di Lemmy decisamente meno grezzo, ma col raffreddore..).

Al di là dei gusti personali, comunque, anche la prestazione vocale è, in fin dei conti, oggettivamente apprezzabile: l’incazzamiento e la versatilità giungono dove la voce e la tecnica arrancano, la forte partecipazione e una spruzzata di teatralità nel cantato fanno il resto e, a mio avviso, dovrebbero far chiudere un orecchio anche ai più tenaci detrattori di Mr. Adenoidi. Le ultime buone notizie arrivano dall’artwork: il precedente copertinista ha finito l’asilo e, iniziate le elementari, si è visto sequestrare i pastelli a cera dalla mamma. E con ciò si è scongiurato un grosso rischio: un’altra copertina brutta quanto quella di “Crystal Logic” e i Manilla Road non avrebbero firmato un contratto discografico nemmeno per la Sugar. Con grande compiacimento di Odino e degli Asi tutti, invece, il pennello è passato a Eric Larnoy (vero Messiah Marcolin del settore) che, non si sa se ispirato dalla musica dei nostri eroi o da forti dosi di Amaro Braulio, ha dato vita ad una copertina veramente suggestiva che contribuisce ad aumentare ulteriormente il fascino di questo disco eccezionale.

P.S.: quanto recensito è la versione del disco riedita su cd.

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