"Lode all'Inghilterra": d'accordo, ma allora perché in copertina mi mettete un gigantesco tricolore italiano sullo sfondo? E poi, a parte la leggera confusione geografica, per fare questa cover non si poteva chiamare, non so, diciamo, un VERO disegnatore? Non credo sia così difficile, il mondo è pieno di artisti di talento che cercano un'occasione per mettersi in mostra, perché sprecare così le loro doti? Ma d'altra parte le copertine non sono il punto di forza dei Manowar, e ce lo hanno ampiamente dimostrato negli anni: il contenuto, invece, di solito gli riesce davvero bene, e "Hail to England" non fa eccezione.

Questo terzo album del gruppo sfoggia un Epic-Metal purissimo, dal primo all'ultimo secondo, o, se volete, si tratta di Heavy Metal stile classico, attento più a creare atmosfera e a suscitare emozioni, che non a esibire tecnica o potenza. Forse non rimarranno fra le composizioni metal più belle della storia, ma, semplicemente, ascoltarle dà delle sensazioni inimitabili, "alla Manowar", che non puoi provare con nessun altro gruppo, e questo non è affatto poco.
Si parte a passo di marcia con la suggestiva "Blood Of My Enemies", uno dei più grandi pezzi della band in cui subito esplodono la potenza e l'espressività della voce del grande Eric Adams, uno dei miei cantanti preferiti in assoluto, in questo album veramente in forma straordinaria; a sostenerlo, con i suoi riff solenni e un assolo dei suoi ci pensa l'unico, vero e solo Chitarrista dei Manowar: Ross the Boss, non fidatevi delle imitazioni.  Il livello si mantiene alto con "Each Dawn I Die", immersa in un atmosfera magica e misteriosa, con un ritornello altamente teatrale. Il titolo è ispirato da un film degli anni '30. La batteria di Chris Columbus attacca lenta, poi inaspettatamente accelera fino a raggiungere la velocità massima e di colpo si sprigiona tutta la mortale potenza di "Kill With Power", una canzone velocissima, polverizzante, la più potente che i quattro avessero mai creato fino ad allora. Certo, i testi sono quello che sono, profondi come la sigla di un cartone di Italia 1, ma chi se ne fotte dico io, stiamo parlando di un album metal, non di un trattato di filosofia. Un incedere maestoso e trionfale è quello che si presenta all'inizio della title-track, "Hail To England": qui l'atmosfera epica raggiunge il picco più alto, non si può restare impassibili ascoltando il refrain, quando la possente voce di Eric darà il suo saluto all'Inghilterra immaginerete di far parte di un esercito di diecimila persone che sta entrando in una città appena conquistata tra l'adorazione della folla. A completare il quadro ci pensano un grande assolo di Ross e il sottofondo di gloriosi cori, ben riusciti e molto adatti al tipo di musica, registrati nella Cattedrale di St.Mary di Auburn, New York. La quinta traccia, "Army Of The Immortals", è dedicata a noi, il pubblico, l'armata che ha permesso ai Manowar di diventare quello che sono; all'inizio del brano vengono citati i titoli dei loro primi due album. Superbo il riff traino della canzone, ancora una volta magnifica l'interpretazione del cantante. "Black Arrow" è l'immancabile "assolo" di Joey DeMaio e, con tutto il rispetto per un mitico bassista dalla grande tecnica e dal carisma unico, sinceramente poteva benissimo risparmiarcelo: passare al prossimo brano, prego. Il meglio, come da abitudine, è tenuto per ultimo: "Bridge Of Death" è un capolavoro assoluto, una memorabile suite di quasi nove minuti che si apre con un'oscura atmosfera carica di tensione, e che, attraverso un altro grandioso riff di Ross, procede in un'epica avanzata verso il ponte della morte, per poi, nell'ultima parte, praticamente dipingere la scena davanti agli occhi dell'ascoltatore: vi troverete davanti alla porta dell'Inferno, intenzionati a sfidare Satana stesso, e il mostruoso signore del male vi starà aspettando dall'altra parte del ponte: un finale davvero indimenticabile, che conclude degnamente un grande album di un gruppo che aveva classe da vendere, anche se negli ultimi lavori si è ridotto un po' male.

Mi trovo costretto a schiaffargli un quattro perché sono sette brani non troppo lunghi, dura praticamente quanto una canzone dei Dream Theater; però sono sette brani assolutamente da non perdere, targati Kings of Metal: sette brani puri, magnifici, leggendari; in una parola, epici.
     

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