Si può idealmente dividere in due parti abbastanza distinte la discografia dei Manowar. Da una parte il l'oscuro Epic Metal degli esordi, dall'altra l'Heavy Metal del successo, molto più assimilabile .
"Sign Of The Hammer" esce nel 1984, dopo "Hail To England" e prima di "Fighting The World", e si colloca quindi tra i due estremi. La produzione, come sempre è stato nei primi lavori dei Manowar, è piuttosto approssimativa, ma a mio parere non riesce a intaccare minimamente questo capolavoro, come non ci riescono i primi due brani, veri e propri fillers.
Il primo, "All Men Play On Ten" è un'inno alla label del momento, la 10 records, e al non abbassarsi a un livello più commerciale per vendere di più, cosa che comunque i quattro Kings faranno poi con "Fighting The World", poco tempo dopo, mentre il secondo, "Animals", è un'altro inno, stavolta alla vita selvaggia, di cui penso nessuno sentisse il bisogno. Superato lo scoglio di due tracce non proprio esaltanti, inizia lo spettacolo e arriva "Thor (The Powerhead)", dove De Maio si ispira nel testo alla mitologia nordica, tema sicuramente ricorrente nel Metal, e nell' Epic in particolare. Thor combatte i giganti in quella che sembra essere la battaglia finale dove, secondo la mitologia nordica, gli Dei troveranno la morte e dove il mondo avrà fine, il Ragnarok. Adams fa sfoggio di una prova vocale e interpretativa a dir poco impressionante, che culmina in un acuto finale di ben 31 secondi, che rappresenta probabilmente l'urlo di morte del dio.
"Mountains" è una ballad maestosa, caratterizzata da diversi cambi di ritmo, da un atmosferico lento al mid-tempo fino alla marcia. Adams dimostra di avere anche una bella voce calda, oltre che dei bei polmoni, e anche qui dà al brano un'ottima interpretazione. Un tuono seguito dal basso di De Maio e da un urlo di Adams introduce la title-track, una cavalcata caratterizzata da un chorus che pur essendo piuttosto semplice resta tra i più belli mai scritti dalla band, dove le tastiere disegnano un coro che dona una carica e un'epicità incredibili al tutto.
Dopo la cavalcata si continua a accellerare con "The Oath", brano di ottimo speed metal americano, forse un po' meno drammatico e epico delle tre precedenti tracce, ma comunque molto trascinante, con un ottimo screaming di Adams. La seguente "Thunderpick" è il solito assolo di basso di De Maio, e dà uno stop deciso alla velocità frenetica di "The Oath", fungendo se cosi si può dire da intermezzo, una breve pausa dove si può prendere fiato prima del gran finale, "Guyana ( Cult Of The Damned)". Quest'ultimo brano, il vero capolavoro dell'album, parla del suicidio di massa della setta del reverendo Jim Jones, nel 1978: convinto che la fine del mondo fosse vicina, o semplicemente voglioso di testare il suo carisma sulle masse, il reverendo Jim Joenes ordinò ai 911 membri della sua setta, riuniti nel santuario di Guyana nelle foreste del Sud America, il suicidio, che avvenne tramite la bevuta di un intruglio a base di cianuro. E non solo adulti consezienti col cervello lavato dalla suadente voce del reverendo, ma anche bambini ricevettero l'intruglio, e ne morirono a loro volta. La mesta marcia finale, aperta da un arpeggio di basso, condita da chorus drammatici e effetti di tastiera lugubri, cala perfettamente nei panni di un adepto sul punto di eseguire l'ultimo macabro ordine, e riesce a far rabbrividire rendendo perfettamente l'idea dell'orrore di quei fatti, grazie soprattutto al solito ispiratissimo Adams, che interpreta il ruolo dell'adepto, e al testo, che, c'è da dirlo, è davvero bellissimo e quasi commovente.
In conclusione "Sign Of The Hammer" rappresenta la fine di un'era per i Manowar, ma anche la sua massima espressione. La band ha raggiunto un alto livello di maturazione, lo dimostra il mix di pezzi lenti e veloci che caratterizza il lavoro e che riesce a non scadere mai nella banalità.
Un album consigliato agli amanti dei suoni più classici dell'epic e dell'heavy metal, ma che potrebbe risultare poco accessibile ai neofiti del genere e della band.
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