"Gli accusati hanno, in tempo di guerra e per mezzo di volantini, incitato al sabotaggio dello sforzo bellico e degli armamenti, e al rovesciamento dello stile di vita nazionalsocialista del nostro popolo, hanno propagandato idee disfattiste e hanno diffamato il Führer in modo assai volgare, prestando così aiuto al nemico del Reich e indebolendo la sicurezza armata della nazione. Per questi motivi essi devono essere puniti con la morte."

La Rosa Bianca/Die Weisse Rose ovvero una delle più note compagini giovanili antinaziste. Una combriccola di coraggiosi studenti, ex-commilitoni, dissidenti, pienamente coscienti dell'inizio della fine. Coincidente con la disastrosa disfatta di Stalingrado: la porta del Caucaso che incita alla riscossa l'Europa degli Alleati vilipesi e dei Campi di Sterminio post-rodaggio.

Sophie Schöll e il fratello Hans rappresentano quella, già in costante ma silenziosa ascesa, micro intellighenzia non ufficiale. Studenti cattolici di Medicina a Monaco di Baviera, condividono con un cospicuo numero di poco più che ventenni, non identificatisi nella svastica, il disprezzo verso quella violenza e quel disgustoso autoritarismo nazional-socialista, lo stesso che nasconde dietro ad una pedante e pomposa retorica bellico-totalitaria gli orrori che ad Est si stanno consumando.

Membri del movimento Die Weisse Rose, pacifico e antiguerrafondaio, si accingono a distribuire per Monaco una serie di volantini, decisi a far aprire gli occhi ad una popolazione civile ancora assuefatta e assopita dalla fasulla eloquenza hitleriana: essi, in aperto contrasto con il Fuhrer e la sua elite di opportunisti, predicano valori e obiettivi politico-sociali antitetici con la dottrina del Mein Kampf: la ricostruzione di un'Europa schiacciata dal bagno di sangue, la pace definitiva, l'abbattimento del nazionalsocialismo, il recupero tout-court della democrazia e del federalismo accantonati.

L'idea di abbandonare questi fogli presso l'Università di Monaco è fatale: colti in flagrante, vengono immediatamente arrestati dalla Gestapo e tradotti in caserma. Separata strategicamente da Hans, Sophie Scholl acquista particolare preponderanza nella trama del film: tartassata in modo sfibrante dal caustico investigatore Robert Mohr, è costretta a confessare il reato di tradimento, demoralizzazione delle truppe e favoreggiamento del nemico, tuttavia non perde quell'ardore e quel coraggio, unito ad una incredibile pacatezza, atti a causare non poche difficoltà (morali e materiali) a Mohr.

Processata insieme al fratello ed a Christoph Probst dal noto giurista penale Roland Freisler presso il Tribunale del Popolo di Monaco, Sophie viene immediatamente ghigliottinata (benché la consuetudine indichi l'effettuazione della pena capitale dopo 99 giorni dalla sentenza), sconvolta ma fiera nell'animo.

Terribilmente realistico e storicamente efficace, il lungometraggio offre allo spettatore il più triste quadretto della Germania hitleriana bellica, scossa e lacerata da Stalingrado, tuttavia non renitente e sprezzante della resa: benché il basso popolino sia pressoché ignaro dei Campi di Sterminio, l'idea della Soluzione Finale già in fieri trova una discreta ma pericolosa diffusione tra i piccoli intellettuali, spesso ex-soldati di ritorno dal Fronte Orientale e spettatori primari dell'universo concentrazionario polacco-orientale. Notevole è il capitolo del film riguardante la diatriba comunicativa tra Sophie e l'investigatore Mohr: ottenuta la confessione da parte della ragazza assieme ad alcuni nomi, Mohr comprende che nulla scalfirà la sua inossidabile coscienza. Avvicinando vergognosamente concetti come libertà, benessere e governo moralmente responsabile alla macchina nazista, l'investigatore cerca di convincere Sophie al'iniquo baratto tra la sua morale e l'etica hitleriana, fallendo miseramente. Anzi, pare che le schiette tuttavia semplici argomentazioni della Schöll, inneggianti il rispetto della dignità, la valorizzazione del singolo individuo (anche mentalmente debilitato), la pace e Dio, colpiscano una personalità, come quella di Mohr, debole e passivamente aderente a qualcosa che neppure lui è in grado di prenderne le difese.

Anche il processo-farsa tenuto da Freisler mostra le velleità negative del tempo che fu: preferendo l'esposizione violenta di argomentazioni fallaci, il giudice riveste il penoso ruolo di arbitro di una giustizia che non esiste, che punisce la razionalità e il pluralismo, che loda la passiva riconoscenza morale di un regime che sparge più sangue che benessere etico/materiale.

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