Che cos'è la cultura? In che modo possiamo rimarcare e/o definire l'identità di un popolo o di un gruppo sociale/etnico/nazionale? Come definire in termini prettamente antropologici le coscienze collettive, gli elementi e le connotazioni in essi radicate? Queste sono le domande, gli spinosi enigmi del XXI secolo che il celebre antropologo Marco Aime, docente presso l'Università di Genova esplica in "Eccessi di Culture", un'opera del tutto non accademica, destinata alla lettura dei cosiddetti "comuni mortali" e non degli iniziati alla didattica di Ateneo, ricca di importanti citazioni, da Zygmunt Bauman a Francesco Remotti.

Nel mondo in cui attualmente viviamo è ormai pressoché difficile, se non impossibile, etichettare e circoscrivere un'identità culturale: la globalizzazione, l'apertura comunicativa attraverso la tecnologia webmatica della Rete e l'estrema facilità degli scambi fra un estremo all'altro della Terra ha pressochè mescolato in modo eterogeneo e "disordinato" le caratteristiche di un determinano popolo, di una categoria etnico/sociale; gli arcaici stereotipi del nero d'Africa che per forza veste con lunghi abiti colorati e suona il bongo, dell'islamico per forza integralista e devoto alla Shari'a, ma anche dell'Europeo bianco, cristiano e ricco a priori sono visioni che, nonostante l'assoluta riduttività e la debole forza sostanziale del loro contenuto, non cessano di essere appannaggio della mentalità dei più, mentalità spesso e volentieri manipolate dalla politica e dei governi che mal vedono questo "calderone" di elementi e variabili culturali e che, nascondendo motivazioni ben più pragmatiche e concrete (volontà di potenza, intrighi politico-economici), portano a formulare postulati di identità nazionali e/o locali da sempre omogenee, intrise di storia e miti da essi stessi creati e inventati per poter legittimare tali ambizioni.

Gli esempi al riguardo sono fin troppi, ma è sufficiente citare la Lega Nord per farsene anche una blanda idea: Bossi & co. parlano di una Padania "naturalmente" celtica, bianca e cristiana, abitata da popoli che da tempo immemore dimostrano eccezionali capacità lavorative e industriali, territorio in cui Po e Polenta sono la radice intrinseca e divinamente imprescindibile. Gli islamici, i meridionali, la "Roma Ladrona" sono soltanto usurpatori di un locus amenus che fin dalla primitività ha conosciuto il federalismo, l'autonomia delle genti e la libertà; ricostruire la mitologica Padania significa eliminare le dannose e patologiche differenze portati dagli infettatori stranieri, ridare omogeneità culturale, etnica e biologico-razziale ad un popolo considerato unico nel suo genere e abbandonare la nave "Italia", persa fra intrighi mafiosi e proposte di devolution mai realizzate.

Ma esistono al giorno d'oggi, era in cui si creano le cosiddette "immaginazioni collettive", identità culturali così univoche da poter arrogarsi il diritto di cacciare (e malamente direi) chi è "diverso", "straniero", "extracomunitario"? Se basta solamente vagare per il web e con un semplice clic sentirsi "americano", "inglese", "spagnolo" a distanza di migliaia di chilometri, perché tentare di uniformare popoli e culture attraverso processi storici mai esistiti? Sono questi ed altri gli interrogativi posti dall'antropologo Aime, che vede nei governi, atti a camuffare motivazioni socio-economiche e intrighi per la Poltrona, i reali portatori di questa filosofia diversificatoria, soggetti che non hanno ancora compreso che nulla è patrimonio esclusivo di una collettività e che ciò di cui noi (e loro) dispongono è dato dall'intersecazione continua e molteplice dei popoli e delle culture durante i secoli (dai numeri arabi all'alfabeto latino, passando per la forchetta italiana, la rasatura egizia e il pigiama indiano).

Abbiamo compreso, dunque, che le pretese dell'etnocentrismo cadono miseramente già in partenza. Tuttavia, anche le visioni del cosiddetto "multiculturalismo" e dei fondamentalismi laici rappresentano seri errori da debellare. E' il caso delle scuole che amplificano, seppur con intenti bonari, le differenze fra autoctoni e immigrati (la questione del crocifisso e delle celebrazioni natalizie, per esempio), dei mediatori culturali che crollano in stereotipi triti e ritriti, dell'occidentale ingenuo che pretende dal sub-sahariano la performance di balli e canti tribali (quando magari gli piace mescolare rap americano, tamburi congolesi e tarantella napoletana) e si stupisce nel caso in cui questo non avvenga. E' pertanto la questione concernente il distinguere (sia negativamente che positivamente) l'Io/Noi dall'Altro/altri, la volontà latente e involontariamente riflessiva di porre confini insuperabili e barriere insormontabili che limita l'accettazione di un contesto misto ed eterogeneo per natura e non per forzata induzione contemporanea.

Insomma, per poter accettare teoricamente questo interessante panorama occorre un nuovo conio verbale, ossia interculturalità, incontro-senza scontro di culture assolutamente volontario e paritetico, lasciato agire senza interferenze politico-gerarchiali e barzellette conservatrici, minestra di colori, sapori, informazioni, vocaboli, ricette culturali e menti geniali all'opera nei secoli.

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