Nuovo album, nuovo capitolo per la cantante gallese, che torna a breve distanza dalla sua ultima fatica in studio (“Love + Fear” è solo del 2019), ma con una carica e con un’ispirazione ritrovate e, bisogna ammetterlo, decisamente inaspettate. Il risultato è il miglior album di Marina (ex “and the Diamonds” per i meno assidui ascoltatori) dai tempi di “The Family Jewels”: con “Ancient Dreams in a Modern Land” tornano infatti l’irriverenza e la grinta degli esordi, che, seppur logicamente filtrate dalla sopraggiunta maturità anagrafica e artistica della cantante, nei lavori precedenti erano decisamente venute a mancare; e se in “Froot”, disco dal retrogusto onirico, la cosa ci poteva stare, in “Love + Fear” invece, nonostante qualche buon pezzo, finiva per rendere il tutto incolore e anonimo e la produzione di certo non aiutava.

Qua invece le scelte sonore sono molto più interessanti e il livello medio dei pezzi è decisamente più alto: si parte in quarta con la title-track, un dialogo con Madre Natura a metà tra il beffardo e il disincantato su un ritmo incalzante, condito da sintetizzatori e falsetti angelici, per poi proseguire con un trio di singoli che si piantano in testa per non uscirne più, senza però rinunciare a una scrittura intelligente e ben ponderata (come in “Venus Fly Trap”, dove il confine tra strofa e ritornello è talmente labile che tutto il pezzo finisce per essere un hook di tre minuti). Peccato solo che nella seconda parte il disco perda un po’ di mordente, ma il problema non sta tanto nei singoli pezzi, quanto nella distribuzione degli stessi: dopo quattro brani tutti pepe, si passa di colpo a una serie di ballate che purtroppo fanno rallentare il ritmo della tracklist in modo troppo brusco, ma è un peccato veniale e su cui, tutto sommato, si può sorvolare, data la brevità complessiva della scaletta. E poi, come già detto, i pezzi in sé sono tutti più che validi: “Highly Emotional People”, accompagnata da un delicato pianoforte, è una toccante disamina della psiche umana che si apre alle emozioni, “Pandora’s Box” innesta delicati beat elettronici sulle crepe di un rapporto ormai incrinato e la conclusiva “Goodbye”, con i suoi saliscendi vocali, è quanto di più vicino alla teatralità degli esordi Diamandis abbia prodotto da “Electra Heart” in avanti, in netto contrasto, peraltro, con il minimalismo strumentale della precedente “Flowers”.

Se però le canzoni sono tutte molto buone, lo stesso non si può dire della penna della cantante, così dannatamente efficace e chirurgica nel parlare di emozioni umane e psicologia (e non c’è da stupirsi, visto che per Marina l’alternativa a una carriera musicale non decollata sarebbe stata lo studio della materia), ma non altrettanto incisiva quando cerca di affondare le unghie nell’attualità: l’invettiva anti-sessista di “Man’s World” nella sua semplicità funziona, ma già in “Purge the Poison”, nonostante qualche bel verso, si spara un po’ contro tutto e tutti in maniera abbastanza innocua, e pure “New America”, ispirata ai movimenti contro le discriminazioni etniche del 2020, non centra il bersaglio come dovrebbe e vorrebbe. Migliorabile anche la produzione, che a questo giro rende l’album omogeneo senza che per questo pecchi di eccessiva monotonia, complici anche delle scelte di arrangiamento molto azzeccate, ma continua ad avere il difetto di smussarne troppo gli spigoli, anche e soprattutto nella voce, che invece valorizzerebbero ulteriormente tutto l’insieme.

Poco male, comunque, dato che, a conti fatti, “Ancient Dreams in a Modern Land” rimane un ritorno in ottima forma per Marina Diamandis, nonché una felice conferma di come, con i giusti input creativi, lei sia ancora una delle personalità e delle voci più eclettiche e particolari del pop contemporaneo, con una carriera davanti che può ancora essere foriera di sviluppi artistici interessanti.

Ora attendiamo con ansia anche l'assunzione di un graphic designer competente per le copertine dei dischi. No, perché è dagli esordi che ne azzecca una sì e una no, e francamente è un peccato.

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