Regista peculiare, iniziatore del giallo e del thriller moderno in Italia, artigiano e visionario insieme, creatore di atmosfera sublime prima che di colpi bassi grand guignol, maestro nell'uso dei colori, straordinario direttore della fotografia, pur non facendo parte di quella straordinaria ed irripetibile élite di maestri che, lungo gli anni '60, entusiasmavano (o almeno quasi sempre, vedi il celebre caso dei clamorosi fischi a L'Avventura) e sbancavano i grandi festival europei, portando il cinema su nuovi avanguardistici livelli narrativi ed autoriali, è ormai, da diverso tempo, risaputo come Mario Bava sia stato uno dei più originali, influenti ed interessanti cineasti italiani. Ma è un paradosso come sia ancora oggi un nome poco conosciuto - o meglio, poco approfondito - in Italia se non dalla (non così vasta) cerchia di appassionati; è comune piuttosto sentirlo tuttora riconoscere come "quello il cui film ha ispirato i Black Sabbath". Eppure, da sempre estremamente sottovalutato, Bava venne "derubato" perfino dal più celebrato di quei nostri registi: famoso infatti il caso di come Fellini prese spunto dalla ragazzina (in realtà un maschio) di Operazione Paura per il suo splendido e celebre Toby Dammit.

Su quanto, poi, lo stesso Dario Argento gli sia stato debitore non dichiarato meglio tralasciare.

Potrei elencare i diversi titoli più memorabili della filmografia baviana, ma ci tengo a parlare di uno di quelli meno conosciuti e che mi stanno, invero, più a cuore. Nonostante siano altri i capolavori del regista sanremese, Il Rosso Segno della Follia è senza dubbio il suo lavoro che, nel tempo (la prima diversi anni fa, l'ultima ieri dopo una recente riedizione in home video), ho spesso rivisto con più divertimento da parte mia. Ovvio, Bava (che, come il collega Fulci, sperimentò generi e generi, comunque) era un maestro dell'orrore e, pertanto, ad uno sguardo superficiale, si può credere che la sua prerogativa fosse creare spavento ed inquietudine. E lo faceva, pochi film sanno essere inquietanti come Operazione Paura, o come il magnifico La goccia d'acqua, magnifico terzo episodio di I Tre Volti della Paura (Black Sabbath, appunto). Ma l'umorismo nero che immetteva nelle sue opere era geniale ed abbondante, in gran parte della sua produzione.

In questo senso, Il Rosso Segno della Follia, prima dello slasher seminale di Reazione a Catena, rappresenta quasi l'apice della commedia nera del regista de La Maschera del Demonio.

Particolarmente geniale è il personaggio di Laura Betti, sadica ed indimenticabile moglie del protagonista John Harrington, che anche dopo che questo l'assassinerà, non smetterà di tormentarlo sotto forma di spirito quanto mai subdolo (prima si fa vedere ed interagisce con tutti tranne che a lui, poi solo al marito stesso). Il rapporto tra loro è uno dei più originali che si ricordino tra marito e moglie, vittima e carnefice.

Il film è un gioco sadico e psicoanalitico dai risvolti ora bunueliani ora hitchcockiani, e, pur nei difetti dovuti probabilmente alla scarsezza di risorse, la maestria di Bava è ancora una volta evidentissima. Così come la genialità della sua autoironia, come quando fa guardare al protagonista il suo I Tre Volti della Paura, salvo poi fargli dire di non amare il cinema horror, in quanto "la realtà è molto più spaventosa". E' Bava stesso a divertirsi. Così come quando mostrava un sogghignante e beffardo Boris Karloff nel finale "meta-cinematografico" del sopracitato film a episodi del '63.

Anche se, come dicevo, non si può annoverare tra i migliori film in assoluto del regista, Hatchet for the Honeymoon (il ben più appropriato titolo internazionale) è una piccola, autentica e preziosa del cinema sommerso. Ed un esempio, lasciando perdere l'annacquata definizione di b-movie, di cosa volere per passare nemmeno novanta minuti di splendido intrattenimento.

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