Realizzato del 1975 da Mario Monicelli, subentrato all'originario regista Pietro Germi per la scomparsa di quest'ultimo, "Amici Miei" è forse l'ultimo atto della commedia all'italiana e l'inconsapevole epitaffio, direi quasi il funerale, di un'epoca, al di là della piena efficacia di un prodotto, che, come pochi, fa ridere lo spettatore, creando tormentoni non senza un retrogusto amaro.
La storia la dovrebbero conoscere tutti i lettori di debaser, sebbene mi sia accorto come nelle più giovani generazioni (diciamo i nati negli anni '90) il film risulta pressocché ignoto, nonostante i numerosi e costanti passaggi televisivi: la riassumo, dunque, seppure in via estremamente sintetica, anche perché, nel, film, più che una storia sono descritte delle "situazioni".
Cinque amici toscani di mezza età esorcizzano la vecchiaia in arrivo, le tristezze della vita familiare e le proprie miserie umane organizzando delle burle (zingarate) a danno di chiunque capiti loro a tiro, specie se grullo o indifeso: entrano in un paese spacciandosi per tecnici pronti a realizzare in loco una nuova superstrada - con connessa espropriazione delle case dei villici -, vanno alla stazione prendendo a schiaffi i passeggeri di un treno in partenza, si fanno ricoverare in clinica prendendo in giro suore ed infermiere, si spacciano per elementi della mala legati al clan dei marsigliesi.
I cinque, veri e propri tipi italici contemporanei (non solo di ieri, anche di oggi direi), sono il giornalista e voce narrante Perozzi, tendenzialmente fedifrago e dalla vita familiare quantomeno disastrata, non privo di tratti di malinconia; il conte Mascetti, nobile decaduto, amante del gioco d'azzardo e delle belle donne, anch'egli dalla vita familiare disastrata al pari del Perozzi, rispetto al quale costituisce una sorta di "nobile" alter ego; l'architetto scapolo Melandri, colto ed etereo, amante dell'arte ed anch'egli rampollo di ottima famiglia fiorentina; il barista Necchi, dalla matrice popolana, proprietario del locale in cui i cinque si sfidano sovente a biliardo e preparano le loro burle, sposato un po' per comodo un po' per amore, ma dalla vita familiare relativamente serena (salvo tentazioni lubriche); da ultimo, il dottor Sassaroli, clinico/cinico proprietario di una casa di cura privata nelle colline fiorentine, che si unisce ai quattro dapprima occasionalmente, poi in via sempre più stabile, a fronte delle affinità con gli altri e del suo luciferino sarcasmo.
Tante le chiavi di lettura per interpretare e valutare questo film, molte delle quali assai note e diffuse anche in rete: lo scherzo come reazione alla morte, sia quella temuta che quella effettivamente presente nelle vite di ognuno, come reazione alla mediocrità delle esistenze, come scatto di genio rispetto all'uniformità del quotidiano, come anomalia rispetto all'atteso. Il tutto, a ben vedere, con toni da Decameron, dove una Firenze assediata dalla peste è il preteso per raccontare storie, ora a sfondo sensuale ora a sfondo parodistico: ciò in parallelo rispetto all'aria, per certi versi pestilenziale, che spirava nell'Italia della crisi petrolifera, del terrorismo, a cavallo fra la rivoluzione sessantottina e gli anni del riflusso.
Tralasciando le connotazioni speculative cui può dar luogo, nella sua classicità, questo film, ritengo opportuna qualche osservazione conclusiva sulla messa in scena e sulla qualità del cast, che rendono "Amici miei" un piccolo, forse addirittura sottovalutato, capolavoro del cinema italiano: asciutta ed essenziale la regia di Monicelli, capace tuttavia di restituirci un'atmosfera ormai dimenticata come quella dei bar di periferia, delle sale biliardo vecchio stile, come pure un immagine non scontata e non bozzettistica - spesso notturna - della Firenze degli anni '70, al pari delle atmosfere livide degli interni familiari, squallidi pur nella loro vicinanza con il bello eterno dell'arte che li circonda, e forse annega. Eccellenti e ben caratterizzate le prove di caratteristi come non se ne fanno più (Moschin, Del Prete, Celi, lo stesso Blier), da antologia la sfida fra la scuola francese di Noiret e quella italiana di Tognazzi - assi portanti del film - talmente veri da farci sembrare vivi, reali ed esistenti i loro personaggi.
Salaci e vividi, il soggetto e la sceneggiatura, nel mescolare malinconia, comicità, oltraggio, solitudine in un insieme che, al contempo, diverte e fa riflettere, risultando, ancor oggi, un classico, un rifugio a fronte di tanto cinema contemporaneo molto meno attrattivo, ma anche a fronte di altro cinema dell'epoca, con pretese maggiormente intellettualistiche, come ad esempio il quasi coevo "La grande abbuffata" di Ferreri.
Chapeau.
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