Non credo sia fondamentale capire se davvero nella New York dell’Ottocento la violenza fosse così diffusa ed estrema. Con Gangs of New York infatti Scorsese porta avanti un discorso sulla violenza che abbraccia tutta la storia americana e non va letto solo come ricostruzione storica puntuale, bensì come raffigurazione simbolica onnicomprensiva. La New York del 1846 o del 1862 rappresenta in un certo senso anche la New York del 1950 o del 2000; o meglio, l’America. Scorsese vuole raffigurare un mondo, un modo di vivere e costruire uno Stato: come farà qualche anno più tardi Paul Thomas Anderson con There Will Be Blood, Scorsese ci racconta di un’America che vive e si nutre di violenza, che cresce e si fortifica appoggiandosi ai principi che Bill il macellaio spiega così bene: in sostanza, la legge del più forte.

C’è in questa rappresentazione una volontà di accusa e denuncia? Sicuramente, in parte, ma il regista non si ferma certamente a questo. Coesistono infatti in modo decisamente equilibrato la critica e l’accettazione: l’America ha le mani imbrattate di sangue, ma quelle mani hanno costruito una nazione, hanno anche lavorato e portato ricchezza. Questa chiave di lettura si evince da due elementi. Da una parte c’è la magnifica figura del macellaio, incarnata splendidamente da Daniel Day-Lewis: egli è l’emblema della violenza dei nativi, ma nondimeno è una guida per molti, porta aventi dei valori fortissimi, di onore e orgoglio. Certo, la legalità non è un elemento chiave nella sua visione del mondo, ma sicuramente la sua leadership è una fonte di ispirazione per molti ragazzi alle prime armi, come Amsterdam Vallon.

L’altro elemento che evidenzia la parziale accettazione della violenza per un bene più grande è invece puramente stilistico: il sangue, le battaglie, gli ammazzamenti e così via non vengono raccontati in modo tragico, ma al contrario con un filtro epico che si alterna ad uno quasi caricaturale: non si percepisce quasi mai un senso di misericordia verso le vittime, sono rese quasi dei manichini (stile quasi slapstick a tratti) che muoiono perché è necessario che succeda. Come nell’epica, i soldati cadono a frotte, è inevitabile che sia così; lo sguardo del narratore segue con empatia solo quello dei due grandi protagonisti.

Questo stile viene enfatizzato al massimo nella battaglia iniziale, che infatti deve svolgere una funzione mitologica per tutto il resto del film. L’epica dell’epica quindi non poteva che essere oltremodo enfatica, stilizzata, caricata ben oltre il dato realistico. Lo stile, nelle fasi seguenti, alterna momenti normali di narrazione ordinaria a riprese di questa enfasi, anche attraverso la fotografia che predilige il rosso e i toni cupi.

Una violenza che non può quindi essere mai del tutto giudicata da un punto di vista moralistico, perché rappresenta un passato ormai mitico. Altri momenti invece sono passibili di giudizio morale: su tutti quello finale, in cui il governo interviene con armi pesanti nel conflitto tra nativi e immigrati. Lì sì che la violenza è condannabile; infatti in quel caso Scorsese vira su uno stile più malinconico e di accusa per tutti quei morti, oltre a quelli di guerra (vedi l’elenco dei caduti sul giornale). Sia chiaro, anche il macellaio in alcuni momenti viene ritratto come un demonio: ad esempio quando risponde al dialogo politico con l’uso del suo coltellaccio. Ma il giudizio ultimo non è di condanna totale, come sarà invece per il petroliere (sempre impersonato dal mefistofelico Day-Lewis): diciamo che il macellaio è soltanto il simbolo, la personificazione di una mentalità, quindi non è tanto importante un giudizio in bilico tra bene e male sul suo operato. Sarebbe come storcere il naso di fronte alle uccisioni di un eroe epico. La sua morale è interna al mondo della violenza e si basa sull’orgoglio e sulla rispettabilità. Non esiste per lui un mondo senza fiumi di sangue.

In un film comunque tumultuoso e a tratti disordinato, l’uso dei simboli è fondamentale per fare un po’ di ordine. Medaglioni, coltelli, cappelli, quadri: servono a tenere fissi alcuni riferimenti decisivi per la narrazione della vicenda centrale, per evitare che si disperda nell’affresco sociale che viene tratteggiato. Quest’ultimo è notevolissimo e tecnicamente impressionante, com’è facile notare. Scorsese, nella bontà dell’operazione complessiva, mostra però una certa incapacità nel sintetizzare: sono davvero molte le sequenze di massa per le strade, nei bordelli, nei locali. Questo garantisce una notevole gradualità ai processi relazionali, ma rischia anche di condurre a una certa ridondanza. L’accumulo di sequenze simili nei tratti macroscopici rischia di annoiare. Gli spunti sono moltissimi ma non sempre ben distanziati dal marasma di fondo.

Nonostante qualche difetto ritengo tuttavia che Gangs of New York vada considerato come uno dei grandi lavori di Scorsese; non al pari dei classici, ma poco distante. Forse manca qualcosa anche ai protagonisti: se Day-Lewis è perfetto, non si può dire lo stesso per DiCaprio, ancora un po’ acerbo, e soprattutto per l’insipida Cameron Diaz.

Carico i commenti...  con calma