Speravano che la terza prova potesse fermarmi… pensavano che mi sarei arreso di fronte alle “sudate carte”… e invece no! Il Brutal Death mi seguirà all’Inferno, non cadrò da solo!

Scusate il delirio pre recensoreo, ora tornerò una persona normale, almeno per quanto mi è possibile. Eccomi a recensire un lavoro sul quale ero sorvolato al tempo della mia precedente recensione dei Martyr: infatti ritenevo che “Warp Zone”, del 2001, fosse nettamente superiore a questo cd col quale debuttarono nel lontano 1997. Tuttavia, la passione per questo gruppo canadese, riaccesa dall’ascolto del suddetto capolavoro, mi ha condotto alla riscoperta del loro unico altro lavoro in studio (il terzo capitolo di questa band è infatti un live). Il fatto è che, per quanto questo lavoro sia penalizzato da una produzione certamente meno professionale e in generale da un approccio dei membri più spontaneo e meno esperto, rimane un disco eccezionale, un esempio di come generi musicali estremamente diversi possano andare a braccetto.

Ad onor del vero, rispetto al loro altro Lp, le influenze jazz sono molto meno sensibili, anzi, sono schizzi appena accennati qua e là; per quanto sotto il profilo compositivo siano già presenti strutture tipiche di quel genere, a livello strettamente sonoro si sentono molto meno, favorendo le commistioni col progressive. I nostri sembrano infatti nutrire un certo interesse nel mescolare il Death Tecnico alla Gorguts con un Progressive Death di matrice Atheist o Cynic: ciò che ne scaturisce è un prodotto estremamente multiforme che al primo ascolto lascia spiazzati. Sentire un growling, anche se un po’ addolcito rispetto ad altri gruppi del genere, verseggiare su un tappeto sonoro che spazia dal metal più intransigente alle prodezze tecniche tipiche di quello più avanguardista, lascia infatti un po’ interdetti riguardo le intenzioni del complesso.

Queste saranno più chiare solo dopo che si sarà giunti alla fine dell’opera, quando ci si potrà rispondere che il suo solo intento è quello di creare una musica di alta qualità e tasso tecnico senza che si configuri come uno sterile sfoggio dottrinale. Le canzoni diventano più coinvolgenti a mano a mano che si susseguono gli ascolti, non solo per la loro forte carica ma anche grazie ai giochi musicali che questi quattro “dottori” della musica riescono a mettere in piedi. Ancora una volta è il singer-chitarrista, ex membro dei connazionali Cryptopsy (evito di sperticarmi in lodi varie) a spiccare sugli altri compagni; costui strumentalizza una perizia strumentale esagerata, che spazia dal riffing intricatissimo del Brutal Death ai solo alla Chuck Schuldiner, il perito (in entrambi i sensi) collega dei mitici Death. In possesso di doti considerevoli, il cantante riesce a dare il cuore anche in sede di scrittura, rivelando di essere così un musicista a tutto tondo e non soltanto un bracciante. Faccio notare che la sua preparazione avrà modo di migliorare con gli anni, tanto che nel lavoro successivo lo si vede manovrare facilmente anche tecniche legate a generi molto diversi dal Death Metal.

In generale, tutti i membri dei Martyr svolgono un lavoro mirabolante: il batterista è veramente uno dei più creativi che abbia mai sentito, forse l’ unico che già allora dimostrasse di avere alle spalle una formazione jazzistica: la si sente nei controtempi, nella totale (o quasi) assenza di un ritmo regolare e nella capacità di mantenere invariate queste caratteristiche anche all’ aumentare della velocità. Questi non disdegna però anche soluzioni meno macchinose e si abbandona a parti più tipicamente metal dall’ indiscutibile forza. Ottimo anche il lavoro svolto dal bassista, finalmente udibile in un disco di metal estremo e indubbiamente molto capace. Difficile trovare una sola canzone da ergere a modello in quanto tutte hanno una propria anima che non può essere sintetizzata in una sola: forse però “Prototype” è quella più accattivante per il suo ordito imprevedibile. Come detto per “Warp Zone”, non posso farmi avvocato del mood di questo disco perché varrebbe a dire essere l’avvocato delle cause perse: l’atmosfera è infatti molto debole se non assente, uno dei pochi casi in cui l’Es è schiacciato dal SuperIo (perdonate i freudiani riferimenti, si vede che lo strizzacervelli mi sta contagiando).

Ma quel che importa è la raffinatezza di questa musica, il lucido fanatismo con il quale è suonata e composta; canzoni così sapientemente strutturate che riescano nel contempo a seguire una linea “melodica” coerente, rappresentano una vera rarità all’interno del metal estremo, adatta ai metallari un po’ outsider o ai veterani della musica progressiva che non disprezzano le sonorità più dure.

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