Partiamo dalla fine, come se fosse un b-movie o un noir. Il corpo di Marvin Gaye il 1 aprile del 1984, giorno del suo quarantacinquesimo compleanno, giace a terra esanime nella casa paterna in una pozza di sangue. Un solo colpo di pistola sparato dal padre, durante l'ennesimo violento litigio, ha messo fine alla tormentata esistenza di uno dei più grandi cantanti soul di sempre. Una serie di disavventure sentimentali ed economiche, nonché la tragica morte della sua partner artistica Tammy Tarrel, avevano messo a dura prova la sua fragile psiche, fino a condurlo, nel '79, ad un tentativo di suicidio con un'overdose di eroina (la "scimmia" pesava da tempo sulle sue spalle larghe ma tutt'altro che resistenti).

Rapido flashback. Siamo agli inizi degli anni '70 e Marvin è l'artista di punta della celeberrima Motown Records. Il "nero che piace ai bianchi" decide una dare una svolta alla sua carriera costellata di successi, in aperto contrasto con la casa discografica. Nasce così "What's Going On", un album che segna uno spartiacque per la musica soul, e non solo per essa; non più singoli zuccherosi, romanticismo all'estremo, falsetti a profusione, ma la strada, il ghetto, il Vietnam, persino l'ecologia entrano prepotentemente nelle canzoni: una piccola grande rivoluzione, insomma. Ma non è solo questione di contenuti. Anche dal punto di vista musicale, in poco più di 35 minuti, con quest'album si entra in nuova era per la musica soul: già nella title track, posta in apertura, spicca la voce raddoppiata, sovraincisa di Marvin che, insieme a quel "groove" percussivo misto agli archi, costituirà un modello (inarrivabile?) per tutta la black music che verrà.

I brani sono otto e, come abbiamo detto, non pochi di essi trattano di tematiche a sfondo sociale; mai, però, in modo retorico o, peggio, predicatorio. I dubbi, le angosce prevalgono; le ansie giustificate ("Che cosa sta succedendo"?), le preoccupazioni per la società in cui vive e per alcuni negativi mutamenti in atto, per la sua gente hanno la meglio sulle soluzioni possibili. Esemplare, in tal senso, il brano che chiude l'album "Inner City Blues" (recuperate anche la splendida cover dei Working Week), in cui si parla del ghetto, della povertà, dell'inflazione. Un'acuta sensibilità che avvicina Gaye più ad un ottimo fotografo che al bravo giornalista. Ma il miglior modo per ascoltare questo evergreen è, a mio parere, quello di abbandonarsi ad esso come se fosse una lunga suite in più tempi; un unico ricchissimo brano nel quale le radici d'ebano della black music (il gospel, in particolare, ma anche il jazz) sono importanti quanto le gemme che da esse nascono rigogliose. Lasciarsi trasportare da questi suoni avvolgenti, caldi, dai ritmi regolari di un basso cristallino, da degli arrangiamenti per l'epoca a dir poco innovativi (quanti si sono ispirati ad essi !), merito del suo inseparabile collaboratore Van De Pitte, è un'esperienza davvero gratificante, che riesce a coinvolgere anche i più cinici, anche i non appassionati di soul music.

Quella scena macabra del 1 aprile '84 l'ho cancellata dalla mia mente; quel corpo riverso nel sangue, tra le urla di disperazione del padre omicida, non doveva essere l'epilogo della vita di un cantante ed autore così inquieto e sensibile. Marvin Gaye per me sarà sempre quello che appare sulla copertina dell'album: un uomo elegante nel suo impermeabile nero, dallo sguardo intenso e tormentato, che affronta la pioggia battente senza paura.

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