Non ci sento granché di Blood Mountain, come è stato invece scritto qua e là, in questo nuovo singolo dei Mastodon. È un buon pezzo, che riconferma la lucidità di una band che ha sbagliato davvero poco nella sua ormai quasi ventennale carriera. Ma cosa potrebbe suggerirci questa canzone sul disco in arrivo il 31 marzo, Emperor of Sand? Beh, il confronto con i brani di apertura dei due precedenti album mi pare indicativo. La tendenza è quella a una progressiva asciugatura: da Black Tongue, pesante, pachidermica, lenta ed enfatica in modo quasi stucchevole, si è passati alla più scattante e sincopata Tread Lightly, che comunque manteneva spazi ariosi, fin troppo ariosi secondo me, nel ritornello dilatato. Nel nuovo pezzo si attua un’ulteriore sfrondatura di tutto ciò che può risultare superfluo, togliendo respiro alle melodie, compattando le diverse sezioni nello spazio esiguo di soli 4 minuti.

C’è comunque un po’ di tutto: il riff martellante in apertura, la strofa aggressiva di Troy Sanders, il ritornello acidulo, nasale e dilatato di Brent Hinds; c’è la pausa rarefatta, la ripartenza brutale e incazzosa; la variazione melodica quasi pop di Brann Dailor, l’assolo virulento ed essenziale di Hinds. Quello che i Mastodon portano avanti da ormai tre dischi è un manierismo di elevata qualità ed efficacia; bisogna essere capaci anche di ripetersi senza annoiare. Se The Hunter ci riusciva in parte, il disco del 2014 lo faceva meglio. Quello che uscirà nel 2017 si prospetta secondo il mio parere come una versione meno orecchiabile di Once More ‘Round the Sun, meno preoccupata di piacere a tutti i costi. Sembra poco, ma non lo è: ho ascoltato Sultan’s Curse davvero tante volte nelle ultime 24 ore, ma non mi ha stufato per niente. Questo perché è talmente contratta, compattata, priva di aperture ariose, stratificata tra melodie e ritmi furibondi, che richiede davvero numerosi ascolti per farsi assimilare.

La struttura è in ogni caso abbastanza standard, richiama proprio palesemente quelle delle due canzoni di apertura menzionate, ma concede meno spazio all’ascoltatore per mettersi a suo agio. E quindi la variazione ritmica che arriva verso metà, come avveniva proprio allo stesso modo in Black Tongue, è meno banale e telefonata perché più contratta e tirata, come anche il ritornello di Hinds non diventa mai stucchevole perché arriva e se ne va in un attimo. Questa asciugatura conferma il processo raccontato dalla band: dal disco doppio di cui si parlava, si è giunti a un disco solo di appena 51 minuti. E guardando i minutaggi delle altre canzoni, tutti abbastanza bassi, si può forse intuire quale sarà la cifra stilistica di Emperor of Sand. Io non ci vedo grandi ritorni allo stile dei primi lavori; mi basta che sia una versione più cattiva, asciutta e martellante del precedente disco.

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