La rosa ha i denti nella bocca di una bestia.

Due tizi che dedicano il brano di apertura e il titolo del loro disco nientedimeno che a al pensiero e alla biografia di Ludwig Wittgenstein suscitano interesse, generano curiosità.
A questo si aggiungano l’aura di bizzarri esploratori intellettuali, ricercatori di un laboratorio sonico dal piglio ironico, che da tempo li circonda e la singolare attitudine concettuale che in passato li ha anche visti attingere dai suoni di una sala operatoria per estrarre materia da sottoporre alla loro de/ri/costruttiva chirurgia sonora.
Anche chi non ha mai sentito un loro disco per intero rischia di essere perlomeno curioso d’affacciarsi sui risultati del loro più recente esperimento.
Così….

La rosa, notoriamente priva di denti, chiude la propria esistenza ingoiata da una bestia per tornare al ciclo vitale, espulsa sotto altra forma e divenendo essa stessa sostanza necessaria alla crescita di altra rosa. Nella bocca della bestia trova quindi i “propri” denti.

Il circolo virtuoso e paranoico che sottende la mia rozza lettura del riferimento alla logica di Wittgenstein credo possa essere applicato al sistema che governa questa raccolta di ritratti sonori.

Perché di questo si tratta: dieci personaggi, dieci brani assemblati utilizzando suoni “organici” prodotti da materie e oggetti che hanno diretto riferimento alle loro vicende, alle loro idee
: rose, appunto. E denti. E poi coltelli, macchine per scrivere, stoviglie, letame, sigarette e forbici. E sperma, qualunque sia il suo suono. Persino lumache che suonano un theremin (?).
La perplessità che posso immaginare dipinta sul vostro volto è la stessa che stava sul mio mentre infilavo il cd nel lettore.

Ma l’obliquo e sottile meccanismo dei due californiani ha funzionato come un gioco di prestigio: quel che “Rose Has Teeth In The Mouth Of A Beast” restituisce attraverso tutta quella organicità ingurgitata è un disco zeppo di musiche.
E di frammenti geniali.
E divertenti.
E ricco di ospiti, dal Kronos Quartet, a Björk (per la verità un suo minuscolo frammento), da Zeena Parkins ad Antony, per citare i più noti.
E attraversato da una gran quantità di suoni: chitarre e bassi, archi, pianoforti. E sintetizzatori e tastiere. Bombarda, onde radio e arpa. Percussioni e trombe. Anche un corno francese, tanto per gradire.

Ci sarà tempo per gustare con maggiore attenzione i dettagli che, nel corto circuito di riferimenti tra struttura, biografie e suoni, formano l’intricato reticolo di citazioni e rimandi.
Potrebbe essere occasione per risalire dagli indizi verso figure e vicende ignote.

Ma quel che conta ora, ascoltando “Rose Has Teeth In The Mouth Of A Beast”, è che il risultato di un’operazione apparentemente ostica e forzata, scorre spostando in ogni traccia la propria traiettoria, modificando costantemente il tono e l’atmosfera senza mai pagare alcun pegno in termini di noia o vacuo oltranzismo “intellettuale”.
C’è davvero un mondo sonoro, in questa rosa dentata: imprevisti squarci funky, atmosfere jazzate spruzzate di inquieta classicità (Patricia Highsmith amerebbe il brano che le hanno cucito) vortici e “rumorini” da cartoon music, rarefazioni profonde o crepitanti, frenesie “industrial”. Persino quella che pare la colonna sonora di una spy story lisergica che sembra concludersi in una cattedrale (e il riferimento qui è a Joe Meek, produttore cinematografico, ma anche musicista, coinvolto negli anni ’60 in una vicenda di omicidio) Poi l’ossessione ipnotica di percussioni e fiati nordafricani, dopo un’introduzione ragtime interrotta da uno sparo e proseguita nel chiuso di una stanza al ritmo di respiro affannoso e tasti di macchina per scrivere, nel brano più lungo e articolato, posto quasi in chiusura, in omaggio a W. Burroughs.
Come pure il gran pastiche di classicità bucolica e espressionismo da circo, nel banchetto allestito in onore di Re Ludovico II di Baviera, con il quale i due tizi ci congedano.

Due tizi che sembrano avere acquisito, nel tempo, l’esperienza necessaria per concentrare, conciliandole, un’attitudine astratta e concettuale e un artigianato di eccellenza applicato alle strutture dei brani. Dando vita, con questo disco, al frutto forse più gustoso e attraente prodotto dalla loro genetica, tanto artificiale quanto “naturalmente” godibile.
Ma sempre sottilmente e ironicamente inquietante.

Annusate i petali, quindi. Ma attenzione ai denti.

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