Lasciamo perdere il "Bolèro". Non ho niente contro il pezzo più famoso di Maurice Ravel, ma prima di tutto è già stato trattato (ottimamente) in questa sede, e poi lo considero una spettacolare anomalia, un colpo gobbo pienamente riuscito, un'intuizione clamorosa che si è spinta oltre i confini stessi della musica classica, verso una ripetitività ipnotica che è più propria di altri generi. Preferisco invece scoprire, facendomi guidare dalla brillante ma rispettosa interpretazione di Pierre Boulez con la New York Philarmonic, quello che mi sembra il Ravel più autentico, il suo perfetto equilibrio fra tradizione e innovazione, fra le reminiscenze di forme musicali antiche (barocche, a volte perfino cinque-secentesche, come la "Pavana") e la moderna concezione "impressionista" della musica, che all'epoca (fine '800-inizio '900) era considerata un'arte descrittiva al pari della pittura, da cui la nutrita presenza di composizioni "a tema" tra le opere dello stesso Ravel e, ancora di più, dell'illustre connazionale Debussy, l'impressionista per eccellenza.

Alla base dell'eccezionale capacità descrittiva di Ravel c'è una sapienza praticamente assoluta nell'orchestrazione, una maestria inimitabile nello sfruttare al meglio la tavolozza dei cosiddetti "colori" dell'orchestra, che poi non sono altro che gli svariati timbri esprimibili dagli strumenti, con tutti i loro possibili accostamenti.
Non stupisce quindi che gran parte delle sue opere sia più nota nella versione orchestrale che in quella originale, quasi sempre pianistica. Del resto ciò vale perfino per opere altrui: arcinoto l'esempio dei "Quadri di un'esposizione" di Mussorgsky, che ormai siamo abituati a conoscere con il perfetto abito che Ravel ha cucito sulla scarna ossatura originale. Dunque viaggiamo un po' in compagnia di questo grande illustratore, che si muove nel tempo (indietro, anche parecchio) e nello spazio (verso la Spagna) per raccogliere immagini che poi saprà fissare in motivi indelebili, come la commovente "Pavane pour une enfante défunte", che ci immerge in un'aura incantata, di nobile antichità. La semplice bellezza del tema principale, esposto dal corno, ha un impatto così diretto da far passare in secondo piano il colto recupero di questa antichissima danza, che finisce per fare da neutro sfondo a questa melodia immortale.
Il "Menuet antique" è un altro salto nel passato, ma in questo caso la struttura del minuetto (con l'immancabile "trio", una dolce oasi di quiete) è ben percepibile, anche se coperta da un manto di fragorosi suoni moderni ed effetti percussivi dei timpani, che certo gli ingenui minuetti settecenteschi non potevano vantare. "La valse" si potrebbe definire una caricatura di valzer viennese, ma nulla a che vedere con gli spettrali valzer di Mahler, che sembrano invitare a ballare sull'orlo di un precipizio. Qui prevale l'ironia: impennate di "fortissimo", forsennati "crescendo", furiosi colpi di timpani troncano improvvisamente accenni di temi più romantici. Ne risulta un valzer che, pur se stravolto, acquista una sua frivola eleganza, squisitamente francese.
Nella suite "Ma mère l'Oye" (letteralmente "Mamma Oca") Ravel esplora il mondo dell'infanzia, ispirandosi alle fiabe di Perrault. Forse è in assoluto il saggio più alto di quella abilità "pittorica" di cui si diceva. I quadri che si susseguono colpiscono per un suono quasi "tridimensionale" che sembra scaraventare l'ascoltatore nel vivo della favola. L'esempio più nitido è "Laideronnette, impèratrice des pagodes" con il suo trionfo di campanellini e il cinguettio di flauti, flautini e oboi, un impasto di fiati praticamente perfetto, mentre la melodia più toccante ancora una volta è associata al blando ritmo di una "Pavana" ("Pavane de la belle au bois dormant"). Ma è l'intera suite che incatena l'ascoltatore, lasciandolo ad occhi spalancati come un bambino a cui si racconti una favola, e forse proprio questo è il suo scopo. La bussola di Ravel spesso punta verso Ovest, dove il vicino esotismo della musica spagnola offre un'inesauribile fonte di colori. Su questo sicuramente avrà un certo peso il fatto di essere nato (da madre basca) in un villaggio dei Pirenei. La "Rhapsodie espagnole", raro esempio di opera raveliana concepita direttamente per orchestra, è introdotta dall'inquietante "Prèlude à la nuit", che grazie all'ossessiva ripetizione di un abbozzo di tema di quattro note, riesce ad evocare il clima di attesa insonne prima di un giorno importante (chissà, forse la vigilia di una corrida...).
Seguono tre danze tipicamente spagnole: la "Malagueña", con il bel contrasto tra il profondo pulsare dei bassi e il secco, pungente motivo esposto dalla tromba, l'"Habanera", languida e sensuale, ma carica di una tensione strisciante, e la travolgente "Feria", che dopo qualche titubanza iniziale e una breve ricomparsa dell'inquietante tema del Preludio, lascia pieno sfogo a questa tensione. Anche "Alborada del gracioso" è animata dalla frenesia delle danze spagnole. Nella scalpitante parte iniziale ci si agita al ritmo delle nacchere, poi prende la parola il fagotto, il più borbottone degli strumenti, e introduce una pausa lenta, destinata però ben presto ad essere turbata dai sussulti dei timpani, sempre più frequenti, finchè il ritorno prepotente delle nacchere non riporta pienamente alla luce la danza iniziale.

Non mi resta che consigliare a chiunque un viaggio attraverso il mondo orchestrale di Ravel, fiducioso che anche per i non appassionati del genere questo mondo finirà per rivelarsi ricco di sensazioni piacevoli.

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