Una città difficile in cui vivere, la Chicago del secolo scorso, se sei nero e senza un soldo. Questa è la storia di Peter Chatman, classe 1915, nato a Memphis, professione pianista per una vita. Da giovane, coi calzoni sfondati e le scarpe bucate, viaggiò per il nuovo continente saltando su e giù dai vagoni dei treni; visse d'espedienti, si guadagnò ogni volta che potè il suo sacrosantissimo sgabello sui cui poggiare il culo prima di muovere le dita sul piano.

All'età di trent'anni era "Memphis Slim, the Barrelhouse Pianist". Girare il mondo, suonare la propria musica, vivere libero: suggestioni di una sottocultura destinata col tempo a divenire maggioranza, almeno per un breve lasso: prima lo sa Dio come si chiamavano quelli come lui; poi i giovani di quel tipo divennero, si fecero chiamare e si chiamarono tra di loro, "beatniks", vagabondi del dharma, figli dei fiori, hyppies, ma in fin dei conti, bianchi o neri, blues country o rock, erano sempre gli stessi ragazzi americani, generazione dopo generazione.

Chicago arrivò nella vita dello smilzo: era la città più ricca d'eventi e di opportunità, se eri nero e sapevi fare blues. Da quel giorno in poi Peter Chatman smise d'errare, conscio che, nei grandi palcoscenici o nella polvere e nel vomito dei più infimi locali della metropoli, ci sarebbe sempre stato un posto per il suo culo magro ed un pianoforte per le sue dita ossute.

La vita di Memphis Slim è la storia di un uomo e di una intera metropoli, la cronaca di un cuore che pulsa con veemenza. La storia di Memphis Slim, come dice l'inlay stesso del disco, è una storia di sopravvivenza a suon di blues, l'odissea di un uomo solo col suo pianoforte in mezzo ad un mare di depravazione. Un mare agitato dentro al quale resistere era una conquista quotidiana.

I Canned Heat non solo riscoprirono, con questo disco del '74, il repertorio di Memphis Slim, le canzoni e le musiche di sua composizione, ma andarono ben oltre, incidendo i brani assieme a lui, lasciandogli la leadership, nonché il microfono in tutte le occasioni meno una. Si immersero nel Chicago sound fino al collo e sguazzarono in un mare nero di note e di sonorità senza tempo e prestigiosissime.

All'ascolto non ci sono dubbi: questo è sound di Chicago, e del flower power non v'è nulla. I Canned Heat si limitano a corroborare parti che magari sarebbero state un po' deboluccie, ma non molto meno succose. Per inciso, l'Orso è solo all'armonica, presente perdipiù in pochissimi brani, Sunflower Vestine è della squadra ma si divide il compito con James Shane: il predetto neoacquisto suona assieme a Joel Scott Hill, l'altro "sostituto" dello scomparso Blind Owl.

Dieci pezzi firmati Memphis Slim ed una cover, "Five Long Years", l'unica che il pianista cede alla voce di Scott Hill: verrebbe da pensare che questo sia il disco meno Canned Heat della loro intera discografia. E quindi a cosa è servita la band?

L'assolo di piano di "Back To Mother Earth" diviene di piano e chitarra; "Black Cat Across My Trail" è accelerata; l'instrumental alla vecchia maniera "Mr. Longfingers" è irrobustito dalla corposa sezione ritmica. Esecuzione rockeggiante della cover e di "When I Was Young"; chitarrine in gran spolvero per la conclusiva "Wizzle Wham". Trenta per cento del disco, in linea generale, fu l'apporto degli Heat. A parte il rhythm and blues di "Down The Big Road", in cui è la sezione fiati a primeggiare, tutto il resto, tutto quanto, è Memphis Slim, la sua voce stridula, così caratteristica e così diversa dal solito vocione da superdotato di colore.

La band sta volutamente in sordina, rinunciando a primeggiare, preferendo far da lima sorda, per quadrare il sound di un ottimo artista da riscoprire; il "Memphis Heat" alla fine è proprio questo: l'obiettivo degli Heat è mettere quell'"Heat" accanto al soprannome del protagonista, e non tanto rimpiazzarlo, né tantomeno trovare qualcosa di così nuovo da necessitare di un nuovo battesimo.

Diversamente dal disco con John Lee Hooker, con Memphis Slim i Canned Heat non sembrano voler rispondere colpo su colpo alla verve dell'artista-guru di turno, facendogli da originale companatico, rivendicando al contempo la propria identità (il disco si intitolava "Hooker e gli Heat"); con lo smilzo di Memphis, e grazie ad egli, gli Heat paiono tuffarsi dentro ad un mare che non è il loro, dove le loro barbe e le loro camicie pezzate non c'entrano nulla coi completi gessati, un mondo chiamato Chicago, cui paiono ostinati ad integrarsi ad ogni costo, e pertanto calano la testa e lavorano sodo, senza protagonismi. Certo, loro non elaborarono le forme di blues dei Cream o dei Rolling Stones, ma restarono sempre più fedeli alla tradizione, ma mai s'immersero fino a tale profondità. Il risultato dell'immersione fu il migliore possibile: un prezioso reperto ritornò alla luce, ed il disco è più che apprezzabile. A Chicago quanto fuori.

Da rispolverare come i suoi artefici.

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