Alzi la mano chi, almeno una volta nella propria vita, non si è ritrovato a mangiarsi le mani per qualche occasione d'oro clamorosamente sprecata. No, signor Gates lei non fa testo. Suvvia, si tolga quel sorrisetto ebete dalla faccia e la smetta. Non fa ridere nessuno sfottendo tutti quelli che han fatto meno soldi di lei. Dunque dicevamo? Ah sì. Quante volte vi sarà capitato di invocare Anubi, dopo un traversone a porta vuota, durante il tradizionale confronto tra scapoli e ammogliati? Chi può dire, senza timore d'esser smentito, di non aver mai respinto le effusioni amorose della ragazzina bruttina del primo banco, che di lì a un paio d'anni si sarebbe trasformata in una figa da circo?
A Clifford Smith, in arte Mr Meth, è capitato di peggio. Avere a disposizione dodici (12!!!) beat di un RZA al massimo dell'ispirazione (se si tiene conto del fatto che, "Liquid Swords" e "Only Built 4 Cuban Linx" dovevano ancora uscire) e non riuscire a tirare fuori un disco che entrasse nella storia del Rap, direttamente dall'ingresso principale. L'anno è il 1994. Le coste Est e Ovest, i blocchi Nord, Sud, Sud-Est e tutto l'hinterland fino a Catamarano sui Navigli, sono ancora scossi da quel terremoto che rappresentò l'uscita di "Enter the Wu-Tang (36 Chambers)", primo mattone su cui di lì a poco, inizierà a poggiare un vero e proprio impero. Un impero che la crew di Staten Island costruirà a suon di dischi memorabili, live incendiari e sapienti strategie di marketing.
Il Ticallion Stallion nel frattempo si è già fatto notare fuori dal gruppo d'appartenenza, grazie ad una stupefacente performance solista (omonima) contenuta nel disco e uscita come singolo, e a qualche strofa sparsa su lavori altrui (su tutte: "The What?", sul disco d'esordio di Biggie Smalls). L'arte di saper parlare del nulla, senza annoiare l'ascoltatore, è sempre stata nelle corde di Dirty Meth. Caratteristica che insieme ad un timbro vocale caratteristico e riconoscibile dal primo ascolto, un'innata predisposizione per l'allitterazione e un carisma fuori dal comune, ha negli anni fatto la fortuna del rapper, consacrandolo come Wu Brother #1.
L'impressione che si ha immergendosi nell'ascolto del suo esordio solista, è però che nel voler uscire con questa sua prima fatica, sia stato più animato dall'esigenza di battere il ferro finché era caldo, piuttosto che prendersi più tempo per partorire un disco più ragionato e maturo. Del resto, come lui stesso cantava un anno prima: cash rules. Il disco si compone di 12 tracce, più due remix. Se di questi si tiene conto che, uno è identico a quello già comparso sul debutto del Clan, l'altro è prodotto da Puff Daddy, con tanto di ritornello cantato da Mary J. Blige e sfruttando il medesimo campione della versione originale, s'intuisce già che all'Olimpo dei classici targati Wu-Tang, questo disco può guardare giusto col cannocchiale. E dire che le premesse sono ottime: la titletrack e "Biscuits" son due tracce belle grasse, che proiettano l'ascoltatore in quell'incredibile atmosfera fatta di suoni oscuri, campioni orientaleggianti, dialoghi e rumori di combattimento estrapolati da b-movie sulle arti marziali. Che dire poi di due dei tre singoli estratti? "Bring the Pain", tecnicamente perfetta, una produzione che farebbe muovere la testa anche a un paraplegico e The Iron Lung che se la mena, con un flow talmente musicale che potrebbe rappare pure l'elenco telefonico (tanto fuori dal suo quartiere, chi cazzo vuoi che lo capisca cosa dice?!). "Release Yo Delf", sberle al posto dei rullanti, bassone frantuma vetri, fiati da marcia trionfale e sfanculamenti come se piovessero. Con la corista che fa il verso a Gloria Gaynor nel ritornello. Divertentissimo poi, il duello a colpi di slang di "Meth vs Chef", con un Raekwon in forma strepitosa a regalare la collaborazione migliore del disco. E poi, e poi... E poi basta. Spiace ammetterlo, ma laddove la parte musicale non subisce mai cali qualitativi eclatanti, lo stesso non si può del Rap di Johnny Blaze. Che come forse qualche lettore attento avrà già intuito, non fa molto altro che affibbiare a se' stesso una valanga di soprannomi, mandare simpaticamente a quel paese incauti nigga che lo sfidano, farcire cartine e descrivere la propria cricca come forza più devastante dell'universo dopo la Morte Nera. Salvo poi scadere nella melensaggine cafona (e totalmente fuori luogo) di "All I Need" (e relativo remix) e gettare al vento un gioiellino di beat come quello di "What the Blood Clot", usandolo per salutare tutti i suoi amici, conoscenti, ex compagni di scuola e parenti fino al dodicesimo grado. Non colgono nel segno nemmeno "P.L.O. Style", penalizzata dal featuring di tale Carlton Fisk (scandisco: P-E-S-S-I-M-O) e l'immancabile posse cut "Mr Sandman", per la presenza del già citato Fisk e di uno Streetlife ancora acerbo. Veramente un'occasione sprecata. Naturalmente per gli amanti della musica.
Le quotazioni dell'Uomo Metodo invece saliranno alle stelle, rendendolo praticamente onnipresente su tutti i dischi Rap che contano (e che puntino al platino) da lì alla fine del millennio. Le occasioni per rifarsi non sono certo mancate; ma ad oggi, Mr Smith non ha ancora dato alle stampe una produzione realmente degna di nota, col suo nome capeggiante in copertina. Escluso forse, il divertente "Blackout!", in compagnia dell'altro spinellone newyorchese per eccellenza, Redman. Provaci ancora Clifford...
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