Dimmi Meursault e comincio a sciorinare annate e vini come un intenditore di bottiglie francesi.

Wine lover? Io? Io che agito il bicchiere sul tavolo stile seduta spiritica? No. La vita ha voluto che ne sapessi qualcosa, la vita ha voluto che conoscessi eccellenze vitivinicole, ma è la stessa vita che ha voluto che mi approcciassi al vino con lo stesso sguardo criptico che la gente ha con me quando attacco con Cage e Scelsi.

Parliamo di Camus? Il cinico e abulico Meursault, trionfo esistenziale del pensiero buio? Io direi nemmeno, ma al protagonista del libro “Lo Straniero”, la band scozzese si è ispirata per un “naming” piuttosto azzeccato.

Quasi dieci anni di attività e sprazzi di notorietà: Neil Pennycook e tutti i succeduti, all'esordio, arrivano in più occasioni a un tanto così dal mainstream ma la vita gli dice che non se ne fa più nulla.

Ed è così che a spizzichi e bocconi, abbastanza acclamati in quel di Edimburgo, casa natia, pochi mesi fa arriva alle stampe, direttamente dalla Song, by Toad Records, “I Will Kill Again”.

Ecco, partirei dal presupposto che l'album, ad oggi, è quello che in questa prima metà del 2017, mi ha reso più felice.

Anzi, gioco la carta dell'ossimoro: felicemente infelice.

Un album malinconico e perdente, una sorpresa di intelligenza stilistica, tanto da riuscire a non creare particolari rimandi. Ok, siamo lì, in quella terra di mezzo del cantare indipendente folk, elettronico, “low fi”, ma che bello, ogni tanto, usare queste parole con la stessa accortezza con la quale loro le hanno trasformate in suoni.

Credo sia la migliore produzione ascoltata quest'anno; non avverto manierismi, né mode, né insistenza o ridondanze. Sento nove canzoni che brillano di luce propria, introdotte da un sipario strumentale che si apre lentamente, con garbo e dissonanza, stride e rilassa, inquieta e asseconda mentre una voce scandisce I. Will. Kill. Again.

E questo è l'humus stilistico che accompagna tutto il disco, anche quando in "The Mill", si subodora, in una sorta di crasi tra Coldplay e Red House Painters, quel sentore non sempre gradevole di hit parade: basta una serie tv teenegeriale che ti sbatte la canzone nei titoli di coda ed è un attimo che diventi i Death Cab for Cutie.

Non succede ma se succede. No, non succede. Succede invece che ogni tanto sembra di ascoltare il figlio di Robbie Basho, Kurt Wagner, una cassetta country anni Settanta, un contestatore di piazza, quella sorta di black angel con l'anima in panne, pratica riportata in auge da Anohni Hegarty.

Non succede ma se succede che magari uccido qualcuno, vorrei questo album come colonna sonora del mio processo.

Live stream del disco.

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