E Miles disse: "Portatemi qui quel fottuto violinista polacco...!".

L'anno: il 1986, quello delle registrazioni di "Tutu" (si era ai primi di febbraio, l'album fu registrato nel giro di pochi giorni). Il "fottuto violinista polacco" di un'affermazione divenuta celebre, come molti di voi avranno già intuito, altri non era che Michal Urbaniak, che Miles volle a tutti i costi, intuendone (forse tardivamente, per una volta) l'enorme talento. Strano infatti che Miles, indiscusso "Re Mida" del Jazz, non si fosse ancora accorto di un artista che, eppure, già da un quindicennio aveva intrapreso con successo una straordinaria carriera solista, magari priva della dovuta risonanza internazionale ma di certo con pochi eguali in ambito Fusion. Non che il contributo di Urbaniak alla realizzazione di "Tutu", poi, sia stato decisivo, tutt'altro: il peculiare, inconfondibile sound del suo violino elettrico lo si ascolta soltanto in "Don't Lose Your Mind", neanche il pezzo migliore di un album comunque storico nel panorama della Fusion anni '80. E comunque, come per tutti i musicisti che hanno avuto la fortuna di affiancare Miles, anche per Urbaniak, in quel caso, contava soprattutto "esserci": e quella convocazione alla corte del più grande jazzista di sempre - almeno il sottoscritto l'ha sempre pensato - significava soprattutto il simbolico omaggio a un'intera carriera.

Classe 1943, discendente di una tradizione musicale rigorosamente classica, ma aperta al confronto col (poco) Jazz che si riusciva ad ascoltare nei Paesi del Patto di Varsavia, Urbaniak aveva studiato composizione a Lodz nei primi anni Sessanta e accompagnato alcune personalità del nascente Jazz locale come Krzysztof Komeda, sovente destreggiandosi anche al sassofono, destinato a rimanere comunque il suo secondo strumento in favore del violino, di cui fu grande e indiscusso sperimentatore: sperimentatore di sonorità sintetiche e distorsioni applicate a uno strumento di cui pochi, almeno prima delle decisive esperienze di Stephane Grappelli e Jean-Luc Ponty, immaginavano le potenzialità anche in ambito Jazz-Fusion. Con Ponty (e contemporaneamente con Neville Whitehead e Robert Wyatt, alfieri del Jazz canterburiano) Urbaniak ha anche suonato in "New Violin Summit" del 1972, pietra d'angolo del nuovo violinismo "progressivo", facendosi conoscere soprattutto negli Stati Uniti, ove risiederà stabilmente a partire dal 1973 e inciderà tutti i propri dischi. Manco a dirlo, con la collaborazione di session-men fra i mostri sacri della Fusion locale (da Steve Gadd a Marcus Miller, da Kenny Kirkland a Omar Hakim).

In linea teorica, avrei potuto scegliere uno qualunque degli album di Urbaniak, per poterne illustrare l'estro e la creatività, oltre che l'invidiabile tecnica che ne fa un maestro dello strumento; ma la mia (difficile) scelta è ricaduta su questo "Fusion III" del 1975 (da leggersi "Fusion Capitolo Terzo"), tappa conclusiva di un'ideale trilogia dedicata ai nuovi suoni d'oltreoceano e comprendente anche "Fusion" e "Funk Factory", incisi nel giro di pochi mesi. Molti (fra cui anche il sottoscritto) considerano l'opera in questione non necessariamente la più ispirata del violinista, ma senz'altro l'opera della maturità artistica, quella da cui tutti dovrebbero partire per iniziare a conoscere la poetica di questo straordinario musicista; pur senza scadere in superflui e poco fruttuosi confronti, a titolo del tutto personale posso dire che nessuno degli album di Jean-Luc Ponty (di cui pure sono grande appassionato), ha saputo sorprendermi, e parlo di puro coinvolgimento emotivo, più di "Fusion III": e non escludo che chi è abituato alla Fusion più canonica ne possa rimanere assolutamente sconvolto, disorientato, perché diverse sono le scelte inconsuete (a livello di arrangiamento ma non soltanto) che rendono questo un album assolutamente unico nel suo genere; fra queste, una menzione particolare merita la tendenza ad integrare i fraseggi solistici del violino coi diabolici, impressionanti vocalizzi (vagamente "magmiani", per ispirazione) di un'artista geniale almeno quanto Urbaniak, ovvero la connazionale (e allora sua moglie) Urszula Dudziak. Questa "vocalist" (ma il termine è quantomai limitante), titolare a sua volta di pregevoli album da solista, è nota per eseguire estemporaneamente scale ascendenti e discendenti in mirabolante velocità, con eguale padronanza dei registri basso ed acuto, scale che solo in parte richiamano elementi dello "scat" d'ispirazione jazzistica e ricordano piuttosto la vocalità di certe esecutrici dell'area slava ed est-europea in generale: varrebbe la pena di cimentarsi nell'ascolto di questo album solo per provare questa singolarissima "esperienza d'ascolto".

Ma è solo un aspetto, uno dei più appariscenti, di un disco che sa incantare ed entusiasmare a partire da "Chinatown Pt. I": sontuosa esposizione di piano elettrico (suonato da un altro polacco, Wlodek Gulgowski) e linee di violino ad occuparne l'introduzione, coadiuvati dalla chitarra dirompente, poderosa, funambolica del grande John Abercrombie; entra il violino del leader ed è quasi difficile accorgersene, perché il "synth-violin" di Urbaniak somiglia qui, nell'approccio timbrico, a una chitarra elettrica, fra contorsioni cacofoniche, progressioni infinite e passaggi d'una complessità imbarazzante per l'ascoltatore. Più rallentato l'andamento (e notare le somiglianze, nell'atmosfera generale, coi Return To Forever) di "Kuyaviak Goes Funky"; dolcemente ipnotica "Roksana", classica ballata di Urbaniak comunque corredata di variazioni ritmiche e impreziosita dal pregevole assolo del bassista Anthony Jackson. "Prehistoric Bird" è un intermezzo occupato dalla sola "voce" della Dudziak, con risultati a dir poco inquietanti, mentre in "Crazy Kid", fra ostinati "groove" bassistici e la batteria straripante di Steve Gadd, il violino "si traveste" da tastiera elettronica; in "Bloody Kichka" si ha la sensazione di ascoltare lo Zappa di "Willie The Pimp" (straordinario il solo di Abercrombie), "Cameo", "Stretch" e "Metroliner" solo altrettanti modi di rileggere, di plasmare, fra tecnica sensazionale e dissacrante creatività, la materia prima Jazz-Funk comune a tutte e tre le composizioni. Si finisce dove si era cominciato, ovvero con una "Chinatown Pt. II" in cui vocalizzi e violino si muovono all'unisono, nel contesto di un pezzo d'enorme portato avanguardistico.

Ne conseguono cinque stelle sicure, indiscutibili: in una ipotetica rassegna di "perle" Jazz-Fusion anni '70, questo album lo metterei senza esitazione accanto a dischi del calibro di "Heavy Weather", "School Days" o il primo di Pastorius, solo per ricordarne alcuni. Provare per credere. 

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