C’era una volta un fiatista americano di nome Michele; con i dischi  “Tales From the Hudson”, “Two Blocks From The Edge” e “Time is of the Essence” egli raggiunse, secondo l’umile narratore, il massimo della sua prestazione qualitativa di tutti i tempi, sia come valido aiuto ad altri menestrelli contemporanei che da titolare dell’opera sua propria, mostrando invero al mondo (se non si fosse ancora capito sino ad allora) quale compositore et musicista completo, poliedrico, versatile, intelligente, dalla cifra personale ed inconfondibile egli fosse! 

Seriously, boys: Michael Brecker è uno dei pochi musicisti di cui puoi riconoscere a volo la voce strumentale, sia per il tono peculiare che per i fraseggi e gli originalissimi patterns usati. Il disco, com’è tradizione Impulse per le opere di un certo pregio, si presenta con una bella cover di cartone a tre che reca immagini di quotidiano e tranquillo orrore metropolitano sulle rive dell’Hudson. E’ incluso l’esplicativo “libretto d’opera”.

1) “Slings and Arrows” (Brecker) parte a rotta di collo, con un tema molto originale e decostruito, suonato in unisono da Pat e Michael. Si intravede qui già il grosso lavoro di arrangiamento fatto con Pat Metheny e gli altri membri della band per dare un’ordinata  all’esecuzione di questo torrente di note. Non è mai semplice in un combo jazz mettere d’accordo i musicisti, in special modo se ci sono una chitarra ed un piano: due strumenti che devono necessariamente alternarsi nell’accompagnamento, per evitare conflitti armonici. Quando si tratta poi di due strumentisti quali Pat e Joey Calderazzo, quest’ultimo all’epoca quasi un illustre sconosciuto, si viaggia sul filo di un rasoio. Ci si riesce comunque solo quando si hanno dei musicisti di grande maturità, che riescono a sacrificare qualsiasi forma di ego al risultato corale; indubbiamente questo disco costituisce un esempio di raggiunta perfezione stilistica, al pari dei grandi quintetti degli anni sessanta; solo che qui si ha a che fare con materiale incandescente. All’esposizione del tema segue un solo allucinato di Pat che nella sua migliore tradizione riesce a far “strillare” una chitarra semiacustica che di per se non dovrebbe propriamente “aggredire”; invece… scansatevi!!!  Segue il solo di Michael con comping di Joey e ritmi associati. Il breve solo di piano…  “basta già… a farti chiedere se… io vivoo” (citazione per i più anziani). Fine a sfumare con scatenamento di Jack De Johnette.

2) “Midnight Voyage” (Calderazzo) è tutto racchiuso nel titolo: un comodo viaggio su una confortevole vettura. Senza strappi al motore (bis!). Un bel tema tranquillo e riflessivo nella migliore tradizione modern mainstream, con classe da vendere. Michael espone la sua mercanzia e noi comperiamo tutte le possibili note; solo lancinante. Pat rincara la dose con la sua chitarra prima di lasciare il passo ad un walking piano che ci accompagna alla fine.

3) “Song for Bilbao” (Metheny) è un tipico pezzo calipseggiante di Pat: chitarra Roland 303 in bella evidenza: rottame d’annata ma col suono di un musicista di cornamusa che abbia ingoiato un peyote. La cosa strana è che il tempo pari di questo pezzo sembra sempre in equilibrio precario. Contributo di energia pura da parte di Mc Coy Tyner, presente assieme a Don Alias nei brani 3 e 5. Verso la fine il pezzo vola altissimo e gli echi del PMG sono evidenti, seppure in una cornice molto più caratterizzata da fosche tinte metropolitane.

4) “Beau Rivage” (Brecker) parte pian piano ed ha bisogno di più ascolti per dispiegare la sua bellezza appieno. Va evidenziata qui la vena compositiva di Michael che non è mai banale e scontato. I climi che crea, le dinamiche ed i dialoghi con gli altri musicisti richiedono sicuramente più concentrazione interpretativa che nel classico brano jazz medio “AABA”. Pat sembra il naturale gemello di Michael e l’accompagnamento di Calderazzo è sommesso e discreto, lasciando Pat libero di suonare a nota singola con delicatezza. Michael entra in gioco nella seconda parte

5) “African Skies” (Brecker) è una “danza ad anello” rituale e stregonesca di call and response tra sax e piano in cui Pat accompagna all’unisono il sax. Don Alias aggiunge colore percussivo e Mc Coy Tyner ti manda in trance con un solo che a tratti richiama Scott Joplin ed a tratti la mano sinistra di Dio. Non per i deboli di cuore. Voodoo child dell’anima.

6) “Intro To Naked Soul” (Brecker – Holland) è un brevissimo episodio in duo. Intimo e delicato sussurro tra due vecchi amici. Va gustato come una malvasia la sera d’estate in Sicilia, la terra più bella del mondo. E fa da necessario apripista al prossimo capolavoro…

7) “Naked Soul” (Brecker) è l’anima nuda ed onesta di un musicista che ti racconta la sua storia dall’inizio. Non c’è alcun bisogno di parole. Ascolta: si fa sax. Dave Holland aggiunge alcuni episodi a corredo, da par suo e ti sembra di sentir parlare le corde del suo contrabbasso in un dialogo rilassato, sopra una base di spazzole classiche di De Johnette.

8) “Willie T.” (Don Grolnick) è un pezzo composto da uno dei più grandi musicisti che abbiano calcato gli stage jazzistici. Melodia complessa che fa da swingante trampolino per i soli di Brecker prima e di Pat poi, il quale veleggia con la sua chitarra sempre molto chiusa. L’unico disco in cui abbia sentito una chitarra più chiusa di questa è “Rejoicing” di… Pat Metheny!!! Evidentemente gli serve per differenziare e caratterizzare molto la sua produzione jazz in senso stretto dal sound classico più solare del PMG.  Calderazzo si pone, nel suo solo, a quota 8000 metri e da questa trance ipnotica ti fa scendere solo verso la fine del brano.

9) “Cabin Fever” (Brecker) Questo è il pezzo di chiusura che è anche un esercizio acrobatico, fuoco d’artificio con cui i musicisti effettuano una vera e propria passerella ad alta velocità. De Johnette da ricovero immediato e numeri di acrobazia pura. Stroll per buona parte del brano (“stroll” nel gergo jazzistico significa senza piano o chitarra ad accompagnare) ci rivela la classe enorme di Holland, macchina da tiro estrema. Dopo Brecker è la volta di Pat che funamboleggia in un pezzo che si pone borderline tra musica ed esercitazione di stile. Poi Calderazzo ti stende definitivamente, così che alla fine del disco hai bisogno di bere un po’ d’acqua fresca. O ti finisci la malvasia, che è meglio.

Due parole per le “colonne” Jack De Johnette e Dave Holland: entrambi danno un contributo di creatività, energia e precisione che diventano parte imprescindibile dell’opera. Normalmente, da anni, De Johnette (raffinato pianista e compositore per conto suo) si ritaglia un ruolo di interlocutore articolato e paritetico nel trio con Keith Jarrett e Gary Peacock (anch’egli pianista e compositore di gran pregio). Ritualità vuole che in concerto Jarrett salga sul palco, si sistemi e, in genere, ad un tratto si giri e domandi ai due: “Che volete suonare?” per partire quindi con concentrazione somma ed attenta calibrazione dei volumi. In questo disco si percepisce invece (per Jack) uno scatenamento libero da eccessivi pensieri sulla nota o sul  colpo giusto al momento giusto, in favore di un suonare molto più sanguigno, scatenato e potente. Uno dei pochi in grado di poter tenere testa con profitto a cotanta furia è infatti il fido Dave Holland, la cui militanza e garanzia di tenuta in gruppi di pazzi scatenati parte da molto lontano (Davis e le sue prime infatuazioni per l’elettricità).

Nient’altro da dire, se non che si tratta sicuramente di uno dei più bei dischi di jazz mai incisi. :-) V.

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