Il tredicesimo film di Michael Haneke, genio del cinema contemporaneo, non poteva avere un titolo diverso. L'amore è forse l'unico vero protagonista di questo racconto profondamente umano; l'amore nella sua forma più pura e libera, un sentimento così tremendamente incoerente, capace di regalare immense gioie così come tremendi dolori nel corpo e nell'anima. Ed è proprio di questa incoerenza che si nutre tutto il film: assistiamo a un legame profondamente alto, nobile e antico, come quello di una coppia ormai anziana, Georges e Anne, che però allo stesso tempo ci disturba, ci spaventa, quasi ci terrorizza nel momento in cui lei viene colpita da una grave malattia che la costringe a letto e la trasforma lentamente e senza speranze in una specie di vegetale paralizzato. Lui la ama, come l'ha sempre amata, e si prenderà cura di lei, evitando di parlare della malattia con tutti, anche con la figlia, come se parlarne sia una coltellata al suo cuore già distrutto dal dolore. "Ho tante storie da raccontarti", dice George ad Anne durante quella colazione che segnerà l'inizio del calvario: una frase che raccoglie due vite intere e che diventa simbolo di ciò che i due dovranno passare insieme. Sanno entrambi che le cose non miglioreranno, ma che anzi porteranno presto alla conseguenza più ovvia ma che fa più paura, la morte, eppure Anne sembra spaventata soprattutto dalla mancanza di autonomia, dal non poter vivere la sua vita con i propri mezzi, dalla perdita della sua dignità. Georges lo capisce, ed è disposto a tutto pur di assistere quello che è il suo amore, fino ad auto-escludersi dal mondo. Non a caso il film è girato tutto in interni, con Parigi che non si vede mai, nascosta dalle tende bianche del salotto. 

Vincitore della Palma d'Oro a Cannes 2012 e interpretato da due straordinari attori, Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva, "Amour" è un film disturbante, così come disturbanti sono tutti i film che ci regala Haneke. E anche in questo caso il suo inconfondibile stile disorienta e stupisce: fulminante freddezza, assenza di colonna sonora, lunghe inquadrature fisse, crudezza, una quasi indifferenza a tutto ciò che ci mostra, quasi come se ci stesse dicendo: "Io sono un regista, sto facendo il mio lavoro, per tutto il testo, fatti vostri". E pazienza se quello che ci mostra fa capire quanto la nostra natura di essere umani sia fragile, appesa a un filo. 

E' una pellicola ermetica, in cui si inseriscono immagini bellissime, come la figura di un piccione che entra dentro casa due volte, nel bel mezzo della malattia e dopo la morte, quasi come un messaggero metaforico. E c'è anche una specie di ottimismo malcelato, come nella scena dove Anne ripercorre la sua vita guardando un vecchio album di foto e dice, rassegnata ma felice: "E' bello vivere così a lungo... una lunga vita...". E in effetti non a tutti capita di vivere così a lungo e così intensamente: è un messaggio che rende "Amour" un capolavoro assoluto che va al di là del semplice genere cinematografico, per ergersi invece a opera d'Arte universalmente valida. 

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